‘O PRUFESSORE, tratto da: ‘Fatte, fattarielle e nciuce’
il 20 Nov 2013, 22:01
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Nel 1966, non avevo ancora compiuto dieci anni, lavoravo al bar Damato nella centralissima via Roma, a ridosso di piazza Carità, luogo tra i più frequentati e salotto buono della città di Napoli. Il mio compito era quello di portare il caffè a domicilio, secondo le ordinazioni fatte per telefono.
Piccolissimo, ma curioso osservatore, mi trattenevo spesso ad ascoltare i discorsi degli adulti che, sorbendo il caffè o una bibita parlavano incuranti della mia presenza con un linguaggio colorito che scoprii a mie spese doversi interpretare volta per volta a seconda delle occasioni.
“ ‘O prufessore ? Chillo è ricchione !”
“ Ma tu che dice !”
“ Si, va cu’ ll’uommene”.
“ Uh, Gesù !”
“ Eh, se fa pure ‘e guagliuncielle, se fa ‘a scupatella”.
“ Ma chillo è nu viecchio zuzzuso !”
“ Li paga, spesso mettendo la sua firma su dipinti non suoi”.
Imparai quella volta che, chi aveva gli orecchi grandi andava anche con gli uomini e che “ le cose sporche” si potevano chiamare anche scopatella.
‘O prufessore era uno dei più conosciuti ritrattisti di Napoli, pittore eccellente che però aveva la pessima abitudine di apporre la sua firma su quadri non suoi, anche se, e questo è un segreto che mi confidò personalmente, le tele originali portano un autografo anche sul retro, nella parte coperta dalla carta da imballaggio.
“ Tonì duje cafè ô prufessore”.
A quella ordinazione mi pervase una sensazione strana. Era la prima volta che andavo a casa dell’artista e i pettegolezzi carpiti nel bar mi misero una certa apprensione, un misto di paura e curiosità.
Un puzzo di urina mi accolse all’ingresso del palazzotto che dava sulla via Roma e mi accompagnò lungo le scale di marmo, nero per la sporcizia e il lordume per poi confondersi entrando nella grossa camera in cima con l’odore della pittura a olio e del diluente che in quel momento stava adoperando il professore.
La sala molto ampia era buia, le imposte dell’unico balcone chiuse, facevano appena trapelare un sottile raggio di sole. Al centro della stanza un vecchietto in penombra si dimenava arricchendo di colori la tela che era difronte a lui, illuminata da una grossa lampada da tavolo. Tutt’intorno erano seduti dei signori in contemplazione, qualcuno con un proprio dipinto, in trepida attesa. Passò qualche minuto prima che uno di questi si accorgesse di me che sostavo ancora, senza profferire parola, sotto l’arco della porta con il vassoio che cominciava ad intorpidirmi il braccio.
“ Prufessò, è arrivato ‘o ccafè”.
Il vecchietto si girò, fece cenno di aprire le imposte:
“ Vieni, versami il caffè ! Il resto lo dai a Ciaramella ca primma nun l’ha avuto”.
Mi colpì il fatto che non avesse per niente le orecchie grandi, ma solo un’inflessione femminea nella voce. Dovevo aver capito male, ricchione, forse, era solo un modo di dire.
Sorbito il caffè, l’artista si lavò le mani in un catino, poi, lentamente si avvicinò ad un giovane che aveva con sé un dipinto arrotolato, legato con una cordicella. Gli fece cenno di alzarsi poi, insieme, uscirono dalla sala. Fecero rientro dopo cinque minuti, il pittore si mise a sedere, il ragazzo gli svolse la tela davanti e lui, senza nemmeno guardarla, col pennello vi appose la propria firma autenticandola come fosse stata una sua creazione. Quindi fece cenno di chiudere nuovamente le imposte, ma prima che ciò avvenisse, Ciaramella gli comunicò che avrebbe dovuto pagare il caffè.
“ Ah, ‘o piccerillo, vieni !- Mi disse con tenerezza. Io arrossii per la timidezza ed il panico – quanto sì bellillo…ho pensato una cosa: ‘a facisse ‘na scupatella ?”
Il panico divenne all’ istante terrore, ma non mi impedì di rispondere con un tono che dovette apparire arrogante:
“ Prufessò, papà non vuole !”
“ Ah ! Tuo padre, ti manda a smazziare tuorno tuorno a portare il caffè e poi non permette che fai ‘na spazzatina a terra ô prufessore ? – Capii subito di aver fatto una gaffe, che ero andato oltre nell’interpretare le parole ascoltate dagli adulti. – Quant’è ?”
“ Duecento lire prufessò”.
“ Tieni, cinquanta so’pe’ tte, però si’ stato ‘nu bellu fetente, ‘o prufessore ti avrebbe regalato ‘na bella cinquecento lire d’argento”.
Ma ormai il mio pensiero andava al bar, al padrone, che sicuramente mi avrebbe rimproverato per essermi trattenuto troppo per un “fuoricasa”. Incassai il dovuto e scappai via.