Tante e sentite le parole di Carrick al Times, lui che con lo United ha giocato quasi cinquecento partite e vinto praticamente di tutto: Premier (cinque volte), FA Cup, coppe e supercoppe, una Champions e anche un’Europa League. Bandiera e leggenda del club che per anni si è però trascinato un macigno sulle spalle, che lo ha spedito in depressione. Roma, 27 maggio del 2009, la finale di Champions mette di fronte il suo United contro il nuovo Barcellona di Guardiola e Messi. Risultato? 2-0, vincono i più forti, segnano Eto’o e proprio l’argentino, ma per un giocatore quella sarà anche la partita di una svolta personale: “È stato il punto più basso della mia carriera, un peso che mi sono portato dentro per diverso tempo, un errore di cui non mi sono mai capacitato e che mi ha completamente distrutto”. Errore? Quale? Minuto numero nove, proprio Carrick sbaglia un appoggio di testa e regala palla a Xavi. Tocco arretrato per Iniesta, che dialoga a sua volta con Messi che rimanda palla dietro. Poi la verticale immediata di Don Andrés e il suggerimento per Eto’o che sblocca il match. Il suo, quello di Carrick, non è in realtà nemmeno un errore macroscopico, dà sì via alla rete del Barça ma senza essere causa principale di quell’1-0 blaugrana. Eppure per Carrick quell’imprecisione è diventata una condanna personale e psicologica.
Boulevard of Broken Dreams
“Sì, ho sofferto di depressione per due anni – ha continuato al Times – non è normale soffrire così tanto per una sola partita, ma avevo un peso terribile dentro. Avevo vinto la Champions l’anno prima ed il Mondiale per club a dicembre, ma era assolutamente irrilevante in quel momento: il calciatore è visto come una macchina che ottiene risultati, gara dopo gara, perché viene pagato bene e deve giocare perfettamente ogni match per dimostrarlo. Ma non è sempre così che vanno le cose, e per me non è stato affatto facile dimenticare”. E poi? Tanta ansia e mai un attimo di tregua: “Dopo la finale sono tornato a casa, non ho parlato con nessuno della partita. Guardavo mia figlia giocare ma la mia testa era ancora a Roma a chilometri di distanza. Tanti miei compagni mi hanno provato a consolare, ma non sono riuscito a parlarne con loro, e nemmeno con Ferguson: il dolore era troppo forte. Il Mondiale (del 2010, ndr)? Era il mio sogno fin da bambino, ma quando è arrivato il momento non volevo nemmeno essere lì. Chiamavo mia moglie e le dicevo che volevo tornare a casa il prima possibile”.
Fonte: Sky