Da Cristiano Ronaldo a Garrincha, quando il ‘7’ va oltre il numero
Sette sono i peccati capitali. A volte ne basta uno, commesso agonisticamente dall’avversario, per vincere o chiudere la partita (pensate a Muslera). Sette è il numero di Cristiano Ronaldo, un numero denso di sacralità e di magia dentro e fuori dal ristretto, si fa per dire, mondo del pallone. In una visione alchemica della vita, mescolando il visibile e l’invisibile, il sette sarebbe (o forse è) il numero della perfezione.
Non è il prodotto di alcun numero contenuto fra 1 e 10 e ciò lo rende altamente simbolico e attraente, ma anche respingente (dipende se uno va a cercarsi emozioni e guai…). Il calcio ne ha prepotentemente ribadito la centralità anche se il numero sette è stato per anni relegato da una parte, insomma era la leggendaria ala, o l’aletta scattante d’altri tempi, era quello che faceva più o meno le cose che facevano Claudio Sala, Franco Causio e Bruno Conti. E ovviamente Gigi Meroni.
Proprio perché veniva associato all’ala, il sette conservava qualcosa di magico: come il saper volare. Passaggio intermedio tra umano e divino, il sette ce lo ritroviamo sempre fra i piedi (specialmente i calciatori). Basterebbe ricordare, tenendo per un momento da parte Ronaldo, che sette sono, salvo ripensamenti, i giorni della creazione, sette sono i sacramenti del cristianesimo, sette sono le porte dell’Islam che si aprono su sette terre e sette cieli e sette sono i passi fatti da Buddha appena nato. Sette, guarda un po’ tu, sono gli spiriti e sette sono i pianeti del primo atlante astronomico ad essi collegati. E ognuno di loro possiede una specie di contraltare nei sette principi negativi.
Sempre facendo aspettare Ronaldo, sette sono le vacche sacre cantate da Omero e al sette Platone riconduceva l’anima mundi. Per non dire dei “Magnifici sette” originati dai “Sette samurai” e del “Settimo sigillo”. E quando non sappiamo dove altro trovare riferimenti possiamo sempre entrare nella “Casa dei sette abbaini” di Nathanael Hawthorne. Molti più di sette invece sono i calciatori famosi che si sono caricati sulle spalle questo metafisico peso. Se il numero dieci è stato esaltato dal calcio, il sette viene prima del calcio ma nel calcio è abbondantemente confluito sino a costruirsi una personale leggenda al punto che un bel magazine calcistico on line si chiama “Numerosette”.
Quello che associamo al numero sette è un ruolo che nel tempo è cambiato forse più degli altri. Sino a diventare il quarto di destra dei più offensivi 4-4-2 della storia, quello del Milan di Sacchi (con Donadoni) e quello del Manchester United di Ferguson (con i vari Cantona, Beckham e Ronaldo). Al numero sette sono associati campioni come Billy Meredith, Stanley Matthews, Raymond Kopa, Garrincha, Julinho, George Best, Allan Simonsen, Bryan Robson, Eric Cantona, David Beckham, Kevin Keegan, Luis Figo, Raul, Andrij Shevchenko, Franck Ribéry e ovviamente Cristiano Ronaldo, che si è sposato anche commercialmente al numero.
E’ stato statisticamente provato che un ragazzo, dopo il numero dieci, sceglie il sette, forse perché altrettanto suggestivo e forse perché leggermente più “aperto” alle diverse soluzioni tattiche o tecniche. Un sette può esprimersi in modi differenti, il dieci rimane un fantasista. Al sette è consentito essere creativo, imprendibile, romantico ma al tempo stesso lo si onora di un ruolo meno carico, quasi “marginale”, perché spesso il sette è anche bizzoso. Mentre il dieci è quasi sempre il leader. Uno è un di più, l’altro è la sostanza e l’identità. Quando è finito addosso a Bebeto, il sette è diventato anche la “seconda punta”.
Sicuramente a dar lustro al numero sette hanno contribuito Liverpool e Manchester United. Forse più di tutte le altre grandi squadre. Callaghan, Keegan, Dalglish, Beardsley da una parte, Meredith, Best, Robson, Cantona, Beckham e Ronaldo dall’altra. Quello che resta, negli anni, è che la maglia numero sette mantiene la sua “indeterminatezza”, è qualcosa di radicato e di molteplice. E quindi, come detto, di altamente simbolico.
Nel vendere Beckham al Real Madrid, Sir Alex già sapeva che la maglietta con quel numero stampato sopra non sarebbe stata lasciata lì sulla panca dello spogliatoio: era in arrivo un giovanotto dallo Sporting Lisbona. Lo stesso giovanotto, appena un po’ più adulto e smaliziato, che adesso rischiamo di vedere in serie A. Sempre con quella magia addosso.
Fonte: Repubblica.it