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Il lungo cammino di Laxalt fino ai Mondiali

Gasperini, l’allenatore della svolta.

Esile e rapidissimo. L’origine è la stessa: da bambino non voleva mangiare, la madre lo inseguiva e lui correva più svelto possibile. Dice che la velocità l’ha sempre avuta, d’accordo, ma è grazie a Gasperini che ha imparato a usarla.

Quando gli elencano le sue statistiche di palle recuperate, scatti, assist e tentativi a rete, Diego Laxalt si accende: “Questi sono i numeri in cui credo, non le giocate per lo spettacolo. Mi è sempre piaciuto essere concreto”.

Uno che in campo tiene sempre a mente il collettivo, lo spirito di gruppo. Il padre dice che questa è la migliore qualità di Diego, perché secondo lui “una squadra è come un’auto, ogni parte deve funzionare per ottenere prestazioni elevate”.

Tanto ha energia e agonismo in campo, quanto fuori è tranquillo, composto. Dice che l’adrenalina la riserva per le partite e che gli piace “ragionare con calma, osservare, studiare”. Perciò, quando gli chiedevano se avesse sofferto d’insonnia dopo l’esordio in Italia con doppietta al Milan, lui rispondeva semplicemente: “No, ho dormito bene”.

A quindici anni, fa un provino con il Chelsea, notato da un osservatore uruguayano. Laxalt ha un’esplosione di capelli folti, sembra Valderrama, al punto che in Uruguay lo chiamano ancora El Valde. La figlia dell’osservatore gli dà un consiglio: “Per andare in Inghilterra devi farti le treccine”. Così lascia che lei gli intrecci i capelli. E anche se poi in Inghilterra non ci è andato, da allora porta le treccine.

Il Defensor Sporting non è certo la società più titolata di Montevideo, ma ha cresciuto varie conoscenze del calcio italiano (Darío Silva, Álvaro González, Diego Pérez, Martín Cáceres) e leggende come Maxi Pereira, El Manteca Martínez e El Loco Abreu. Laxalt era nelle giovanili quando il club raggiunse il suo massimo risultato internazionale, i quarti di finale della Libertadores.

Col Violeta ha fatto l’intera trafila nel vivaio, insieme a Giorgian De Arrascaeta (con cui condivide l’origine basca del cognome), poi una manciata di gare in prima squadra nel 2012/13. Non è rimasto oltre. Per l’ambizione professionale e per una questione economica, non lo nasconde: “A parte Peñarol e Nacional, tutti i club uruguayani pagano 1.000 euro al mese. Un operaio arriva a 400”. E in quell’intervista a «Repubblica» del 2013, il ventenne Laxalt era già consapevole: “La tentazione di spendere subito c’è stata. Ho visto in centro un Rolex che mi piaceva, poi ho pensato che vale dieci anni di lavoro dei miei. Bisogna ricordarsi da dove si viene”.

Fonte: Sky

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