Tomas Rosicky è sempre sembrato provenire da un’epoca diversa dalla nostra. Già quando giocava con Henry e Nedved pareva un calciatore del passato e persino la notizia del suo ritiro – perché a 37 anni era diventato troppo difficile allenare il suo corpo «per quello che chiede il calcio professionistico» – fa uno strano effetto, come se fosse arrivata in ritardo. Rosicky ha sempre avuto qualcosa di classico nel proprio gioco, in contrasto con un calcio che abbracciava sempre più l’atletismo, la potenza in favore della classe. È sempre sembrato fuori posto, fin da quando giocava in coppia con Jan Koller: un 9 gigante e un 10 con la faccia da eterno bambino, con un fisico talmente esile che i tifosi del Borussia Dortmund lo chiamavano “schnitzel”, fettina panata, invitandolo a irrobustirsi mangiandone di più.
L’impressione forse deriva anche dai lunghi periodi di assenza avuti in carriera, i numerosi infortuni (tendine d’Achille, ginocchio, cosce, inguine e polpacci) che gli hanno fatto saltare quasi tre stagioni intere sulla ventina in cui ha giocato da professionista. Ci siamo abituati nel tempo, un infortunio dopo l’altro, a considerare Rosicky come parte del passato. E in effetti sembrava si fosse già ritirato quando nel 2010, dopo diciotto mesi passati lontano dai campi da calcio, è salito sul palco del premio per il calciatore ceco dell’anno in veste di chitarrista del gruppo Tri Sestry. Così come sembrava una specie di ritiro l’infortunio dello scorso anno, dopo che aveva già saltato l’intera stagione 2015-16 e dato l’addio all’Arsenal, per poi infortunarsi durante la prima partita giocata con la maglia dello Sparta Praga. Come sempre è successo, però, Rosicky è tornato dall’infortunio, giusto lo scorso settembre. Nella sua seconda partita d’esordio, con quella che era stata la sua prima squadra, la squadra in cui avevano giocato anche il padre e il fratello, ha segnato il suo ultimo gol prima di ritirarsi definitivamente.
Il fratello si è ritirato prima dei trent’anni, dopo numerose operazioni al ginocchio, e Tomas già dieci anni fa si lamentava dei problemi fisici. Ma diceva: «Non c’è una maledizione sui Rosicky. Non è un problema di famiglia. Mio padre ha vinto il campionato con lo Sparta e non ha avuto problemi».
In un certo senso, il suo corpo non è mai stato adatto a quello che il calcio professionistico richiede, e Rosicky rimarrà come l’archetipo del giocatore talentuoso ma troppo fragile. Il paradosso è che il talento di Rosicky era soprattutto verticale, talmente adatto per il calcio ipermuscolare moderno che per molti osservatori di quel periodo doveva trattarsi addirittura di una novità. Dell’annuncio di un tipo di centrocampista che ancora non esisteva, o di cui comunque si erano visti ancora pochissimi esemplari (tipo Kakà), ma che presto avrebbe invaso il calcio europeo (un esempio facile da fare è quello di Mesut Ozil). Peter Cech diceva che «ogni volta che gli dai la palla succede qualcosa, non rallenta mai il gioco, va sempre in avanti». In questo senso, Rosicky va ricordato soprattutto come uno dei centrocampisti più moderni dei primi anni del duemila, incredibilmente verticale e veloce con la palla al piede.
«Quando la palla arriva a lui il gioco diventa più veloce, più incisivo, più mobile», ha detto Wenger quando ha dovuto separarsene. «Aveva tutte le qualità per giocare il calcio che volevamo giocare qui. Era il calciatore perfetto per l’Arsenal».
Fonte: Sky