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“Vamos Chape”, le storie che non dimenticheremo

Vinicius de Moraes, una fra le più rilevanti personalità del panorama culturale brasiliano, era profondamente convinto che su questa Terra nessuno possa ritenersi immune dall’amore. Specie se inteso come appassionata dedizione nei riguardi di qualcuno o di qualcosa. Amore è vedere con gli occhi del cuore, ubriacarsi di emozioni, gioire e soffrire oltre ogni misura. Per questo è amore anche quello che un tifoso può provare per la propria squadra, secondo un improbabile principio di esclusività spesso irrazionale o esageratamente romantico. A volte violento, altre straziante. L’ultimo saluto alle vittime del disastro aereo che esattamente un anno fa ha spazzato via la Chapecoense e i suoi sogni è stato dunque un drammatico atto di amore collettivo nel quale la fede, la passione, la disperazione si sono confuse con la pioggia e con le lacrime. A dimostrazione che Pier Paolo Pasolini ci aveva visto lungo nel definire il calcio l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. A dodici mesi di distanza da quella tragedia, attraverso la quale il dolore si è cinicamente sostituito alla gloria ancora da conquistare su un campo di calcio, il mondo è fatalmente uscito dalla paralisi emotiva che lo aveva colpito. La rabbia è stata smaltita, il lutto metabolizzato, la vita ha ripreso il suo viaggio. Anche a Chapecó. Ed è già passato un anno da quando nei cieli della Colombia un aeroplano che trasportava entusiasmo è precipitato al suolo disegnando lo stesso arco di una stella cadente e lasciandosi dietro una indelebile scia di morti. Dei settantasette passeggeri –fra calciatori, dirigenti, giornalisti, equipaggio- solo in sei sono sopravvissuti, miracolosamente. Fra essi i giocatori Hélio Neto, Alan Ruschel e Jackson Follman. Negli ultimi 365 giorni la Chapecoense ha lottato per rinascere ed è rinata, ha assaporato la vetta del brasilero, ha conquistato la permanenza nel brasileirão e anche i tre hanno ritrovato il pallone.

Il portiere Jackson Follmann è tornato ad allenarsi nonostante l’amputazione all’arto destro che ora lo obbliga a usare una protesi. Gli piace l’odore dell’erba e il suono sordo della palla quando batte sui pali. Un mese fa ha sposato la sua adorata Andressa ma il pensiero è sempre rivolto verso i suoi compagni che non ci sono più. Anche Alan Ruschel è tornato a giocare e pure a far gol. Ha segnato  anche in amichevole contro la Roma. E dopo la rete, festeggiato da tutta la squadra, ha alzato gli occhi al cielo e ha immaginato che le mani, le pacche, i baci provenissero da un ‘mondo altro’ dove ora dimorano le anime dei suoi più sfortunati compagni.

Ugualmente, Hélio Neto ha calzato ancora gli scarpini con i tacchetti ma il recupero è lento e senza certezze. Quella notte di freddo e di paura è oramai alle spalle ma la ‘saudade’ per il suo vecchio gruppo di compagni resta invincibile. Gli mancano gli scherzi di Thiego, uno dei diciannove ragazzi caduti fra i monti de La Unión. Quando si risvegliò in ospedale era convinto che la partita a Medellin contro il Nacional si fosse regolarmente disputata, non ricordava nulla. Oggi Neto ringrazia Dio e sente di aver ricevuto da lui il compito di insegnare a se stesso e agli altri a essere migliore di prima, quando ancora non era morto e risorto.  Un anno dopo il dramma a Chapecó il calcio è tornato  a regalare allegria. Negli spogliatoi dell’Arena Condá le gigantografie dei volti di chi non c’è più, ognuna posizionata dietro quello che era stato il posto a sedere del giocatore rappresentato, osservano mute e disciplinate la gioia dei nuovi eroi del prato verde.

Le altre giovani vedove del club non hanno lasciato sola Graziele quando dopo otto mesi di amarissimo lutto è nato Thiaguinho junior, figlio del ventiduenne Thiaguinho, autentica promessa della Chape che solo una settimana prima di morire nel disastro aereo aveva saputo che sarebbe diventato papà. Il piccolo non conoscerà mai il padre, il padre non vedrà mai il figlio. Storia che si ripete. La mamma, coraggiosa, lo ha abbracciato dopo il parto e gli ha sussurrato: “Tuo papà da lassù sarà molto orgoglioso di te, sarà sempre con te. E io avrò in te un pezzetto di quel guerriero che fu tuo padre, mi aiuterai a superare la nostalgia e curare la mia ferita. Con tanto amore”. A un anno di distanza non manca solo la squadra, non mancano solo gli individui (tutti, anche dirigenti, giornalisti, equipaggio periti nell’incidente aereo), mancano le storie. Le loro storie, quelle che avevano scritto e quelle che stavano per scrivere o con certezza avrebbero scritto in un futuro mai vissuto. A un anno di distanza resta un groppo in gola che proprio non va giù, resta il dolore immenso, restano quelle parole drammaticamente profetiche pronunciate dal tecnico Caio Junior qualche giorno prima di partire con la squadra alla volta della Colombia.

La Chapecoense andava a giocare la sua prima finale internazionale, voleva vincere il trofeo dopo una cavalcata straordinaria dalle serie minori fino alla serie A del campionato brasiliano. Dopo la vittoria in semifinale, Caio Junior era fuori di sé dalla gioia, finalmente una finale prestigiosa per ripagare tanti sacrifici e tanto sudore e quell’opportunità di entrare nella storia del calcio sudamericano dalla porta principale. Col morale alle stelle Caio Junior disse di non vedere l’ora di giocarla quella finale e si augurò di poterla vivere vincendola alla guida dei suoi ragazzi. ‘Un risultato che dà lustro a tutta la tua carriera’, gli suggerì qualcuno. E Caio, sereno, rispose sorridendo: ‘Sì, per questo se morissi oggi sarei un uomo felice’. Anche il nome di Caio Junior è nel triste elenco delle vittime del disastro. La Copa Sudamericana la Chapecoense l’ha vinta ma a tavolino, alla memoria. Nella storia è entrata e con fin troppo clamore. Tutto il mondo ha parlato del miracolo Chape, non c’è nessuno che non conosca ora il nome di quella società che fino a un anno fa era sconosciuta ai più. Ma quanto è stato alto il prezzo da pagare al destino per ottenere in cambio la grandezza…

Fonte: Sky

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