Nino D’Angelo ha rilasciato una lunga intervista ai colleghi de La Gazzetta dello Sport:
Gol e canzoni si confondono spesso tra le parole. O forse per Nino D’Angelo sono semplicemente la stessa cosa: facce di una passione, facce di una città. Giovedì canterà all’Arcimboldi di Milano per il «Concerto 6.0», tournée figlia del live mitico con cui questa estate al San Paolo ha celebrato i 60 anni di carriera. Col solito sorriso, anzi qualcosa in più vista la classifica del Napoli.
D’Angelo, che rapporti ha con Milano? «La frequento dagli anni Settanta, quando c’era tutt’altra forma di emigrazione, quando su Radio Antenna Emigrante si ascoltava solo la nostra musica. Milano è Nord e Sud insieme. E poi come si fa a non amare Gaber, Jannacci e Fo…».
Il 21 sarà a Roma, l’altra città della sua vita, ma prima c’è un appuntamento all’Olimpico. «Roma-Napoli dopo la sosta: se resistiamo pure là, forse forse… In ogni caso, questa per anni è stata la “mia” partita, una festa del Sud. A Roma sono venuto ad abitare e in cambio ho ricevuto solo affetto».
Sei, il numero-chiave di questa tournée. Quali sono i sei momenti decisivi della carriera? «Andiamo con ordine: il primo successo, ‘O scippo, poiNu jeans e ‘na maglietta, il primo Sanremo, quella volta in cui ho cantato all’Olympia di Parigi e quell’altro al San Carlo di Napoli. La sesta quest’estate, con i 60 mila del San Paolo».
Adesso cosa chiede alla musica, al Napoli, a Napoli? «Dalla musica ho avuto un grande regalo: sono stato rivalutato, riscoperto, diciamo pure capito. Se potessi, troverei io una alternativa per Napoli, una speranza, un lavoro per chi è costretto ad andare via. Quello che chiedo al Napoli, invece, lo potete immaginare, ma voglio essere ingordo: portatemi pure la Champions!».
E sei motivi per cui questo è l’anno buono? «Iniziamo dal bel calcio, forse il migliore in Europa. Poi l’attacco devastante, la difesa solida, la capacità di vincere partite difficili come contro la Spal e contro dirette concorrenti come la Lazio. Ultimo, Sarri: è speciale e ha fatto la nostra fortuna. Fa esattamente quello che pensa e che dice, tira avanti per la sua strada. Poi viene dal basso, è uno “senza giacca e cravatta”».
Alle altre stelle di questo Napoli che canzoni dedichiamo? «A Mertens non una delle mie, ma un classico: Tu si ‘na cosa grande perché è grande, grandissimo. È una macchina. Io mi rivedo molto in Insigne: è un figlio di questa città venuto dal basso e a noi Napoli chiede giustamente tanto. Per questo, penso a Cantautore, canzone autobiografica che va bene anche per uno che fa cantare ‘o pallone. Inseparabili l’ho scritta nel 1989, perfetta per Reina che da noi non riesce a separarsi. Proprio come Hamsik».
A proposito, si è spiegato cosa porta uno slovacco a identificarsi così tanto con la città? «Ma perché se la conosci davvero, da Napoli non te ne vai più via. Ti entra nelle viscere: chi non l’ha mai vissuta, fa prevalere una immagine distorta. Anche se i problemi sono tanti».
Ma si può anche dichiarare amore e poi andare naturalmente via. Lei come ha vissuto l’affare Higuain un anno fa? «Esiste l’amore, ma pure lo stipendio e la carriera: non penso che altri al suo posto avrebbero fatto diversamente. Di certo ha fatto un errore perché un amore così grande non lo troverà più, anzi per me si è pentito».
Cosa può imparare, invece, il suo Napoli dalla Juve del Pipita? «In questo momento, più che imparare, insegniamo calcio. Loro hanno più abitudine alla vittoria. Ma serve calma perché decidono gli scontri diretti. La festa, in caso, la faremo dopo».
Si ricorda quella del 1° scudetto? «Una rivoluzione di popolo. Il “Che visiete persi” al cimitero un colpo di genio che andrebbe ripetuto. Io ero a casa di un mio amico e poi andai da Peppe Bruscolotti: c’erano tutti i giocatori, arrivò anche Diego…»
Ecco, non è che Diego è stato troppo amato da Napoli? Un sentimento che a volte ha superato quello per la squadra? «Era il migliore di tutti ed è venuto da noi: è come se fosse sceso sulla Terra per cambiare la nostra storia. Adesso c’è una squadra e non un solo giocatore che ci emoziona, ma Maradona non si può discutere. Una volta eravamo su un campo di calcio e mi disse: “Guarda che faccio?”. Prese la traversa uno, due, tre, quattro volte. Eravamo tutti a bocca aperta».
Anche solo per un momento ha mai “maledetto” il fatto di essere nato a Napoli? «No, i momenti di sconforto esistono ovunque. Io qua vorrei rinascere e qua voglio morire. In mezzo a questa contraddizione vivente: Napoli è la passione nel volto della gente che non vince mai. Per questo, servirebbe un altro riscatto col calcio».