Proposte maliziose, messaggi autoironici, slogan che diventano tormentoni e anche qualche botta e risposta tra società. Un’analisi di come i club parlano ai tifosi, facendo leva su concetti come appartenenza, fedeltà, tradizione. Senza rinunciare alla creatività
di Vanni Spinella
Il malizioso invito della Sampdoria ad “andare” allo stadio rappresenta l’ultima trovata dei creativi del settore. Da anni ormai le campagne abbonamenti delle squadre di calcio non sono più banali cartelloni che riportano le tariffe dei vari settori, ma vere e proprie campagne pubblicitarie con tanto di slogan e grafiche studiati da team di esperti. Un linguaggio, quello della comunicazione da parte dei club, che è cambiato, si è evoluto. Restano fissi, però, i concetti sui quali si fa leva per parlare al tifoso: appartenenza, fedeltà, tradizione.
Appartenenza: il “senso del noi”
In principio fu il celebre “io sono interista”, con cui il club nerazzurro – attraverso una martellante ma riuscitissima campagna – rivendicava più di una semplice appartenenza: l’orgoglio, la possibilità quasi esclusiva di far parte di un gruppo. Siamo nell’estate di Calciopoli, e il messaggio è chiarissimo: essere interisti, in quel senso, si porta dietro tutta una serie di altri valori che rendono speciale il tifoso. Negli spot si alternano volti di tifosi qualunque che in tre parole (in cui a pesare è soprattutto quell’io iniziale) si dichiarano con orgoglio. Come è riconoscibile chi fa parte del club? Da una spilletta, che diventa il simbolo della campagna, da esibire a testa alta.
Negli anni, l’Inter ha mantenuto la stessa linea, puntando sempre sul senso di appartenenza e sul meccanismo di inclusione: al primo anno di presidenza Thohir, sui cartelloni, ancora gente comune mischiata ai giocatori e una sola parola, “Insieme”, tradotta anche in altre lingue (“Together”, “Juntos”), per sottolineare il nuovo corso orientato all’internazionalizzazione del marchio.
Stessa scelta da parte della Roma, altro club che mira a mantenere vivo quello che gli psicologi chiamano il “senso del noi”. Non c’è distinzione tra chi va allo stadio e chi gioca in campo: non si tratta di uno spettacolo che viene offerto, ma di un obiettivo (vogliamo dire una battaglia?) da raggiungere insieme: “Roma siamo noi” (campagna abbonamenti 2015/2016), e via con nomi, cognomi e professioni di tifosi comuni, idea ripresa e adattata dalla nuova campagna abbonamenti della Fiorentina, in cui i 4 quartieri e i 4 colori della città (rappresentati da 4 tifosi e 4 monumenti) si uniscono in un unico cuore.
Parlare la stessa lingua
Quando poi l’appartenenza incontra l’orgoglio di far parte di una piccola comunità, la pubblicità si fa creativa e il messaggio viene trasmesso in dialetto, quasi come se fosse un “codice”. Le frasi in sardo studiate dal Cagliari per la campagna 2014/2015 non sono altro che un modo per creare un link diretto con il tifoso: noi parliamo la stessa lingua, ci capiamo, dunque ci apparteniamo. Dialetto anche per il Sassuolo, nello stesso anno: non a caso un’altra piccola realtà, un’altra piccola “isola” felice. Qualcosa di simile ha fatto anche l’Atalanta, che ha trasformato in un motto il classico modo di dire del tifoso bergamasco che va a vedere la partita. Da quelle parti non si dice “Andiamo allo stadio”, ma proprio “Andiamo all’Atalanta”. Un’esperienza collettiva unica.
E se vogliamo parlare di motti, non possiamo non citare nuovamente l’Inter e la sua strategia comunicativa. Dal “Non mollare mai” (tormentone da stadio trasformato in slogan della campagna 2002/2003, con il tifoso Paolo Bonolis impegnato nel tiro alla fune) all’uso di una sola parola, “Amala”, che dice tutto: non c’è nemmeno bisogno di specificare a quale club ci si riferisca. È il ritornello dell’inno, è stato il claim della campagna abbonamenti 2012/2013, è tuttora un hashtag in voga. Non è dialetto, ma gli interisti si riconoscono anche così, tra di loro.
Fedeltà: un matrimonio è per sempre
Calcio e fede, binomio inevitabile. Così come il tema del matrimonio, con la sua liturgia, le sue formule. A livello di messaggio “subliminale” qui ci si discosta leggermente: la differenza è sottile, ma c’è. Perché se appartenenza significa partecipazione, un “se vuoi unirti a noi, puoi”, dietro al matrimonio c’è tutta una serie di doveri che legano il tifoso alla squadra. Non più “puoi”, ma quasi un “devi”. Hai scelto la tua squadra del cuore (o lei ha scelto te, come capita a tanti)? Bene: adesso devi accettarne le conseguenze. Ovvero che, come in qualsiasi matrimonio, ci possano essere alti e bassi, da superare insieme, restando fedeli appunto. Messaggio chiarissimo quello del Milan 2015/2016, meno vincente di un tempo, che fa appello proprio alle promesse fatte anni fa (magari quando tutto andava bene e si vinceva sempre): “Nella gioia e nel dolore”, “Nella buona e nella cattiva sorte”.
Scene da un matrimonio anche per la Samp che, prima di farci venire allo stadio, ha puntato su un romantico “C’ero, ci sono, ci sarò” con tanto di fede nuziale blucerchiata (2014/2015) e prima ancora (2013/2014) su un “Sampdoriani si diventa”, con l’ammiccante lui accalappiato dalla sciarpa di lei (basta che non diventi un cappio) e il ribaltamento del classico concetto che vuole il vero tifoso appartenente a un club fin dalla nascita (ma anche di quello che vuole lui tifoso e lei “trascinata” allo stadio).
Spettacolo garantito: la strategia di chi vince
Chi, come la Juventus, può permettersi di mettere in mostra anno dopo anno i propri successi usa invece un approccio diverso: il club bianconero “vende” al tifoso emozioni, gli garantisce uno spettacolo ricco di soddisfazioni, “Puro godimento” (campagna 2015/2016, accompagnata da una sorta di promessa: “Vi aspettiamo per un’altra, memorabile, stagione”). Insomma, stai con noi che ci sarà da divertirsi di nuovo: messaggio che si distacca da quelli di Inter o Roma dato che implica la presenza di un “noi” (quelli che offrono lo spettacolo), ma anche di un “voi” distinto (chi godrà dello spettacolo). Solo nell’ultimo anno i bianconeri hanno cambiato rotta puntando sull’appartenenza, con un chiarissimo “Noi non andiamo allo stadio. NOI siamo lo stadio” in cui non c’era presenza di “voi”.
Tradizione: il peso della Storia
Ci si avvicina ai concetti di appartenenza e fedeltà, ma con alcune sfumature. La fede che “si rinnova”, che i nipoti ereditano dai nonni (Fiorentina, 2016), è diversa da quella che porta a sposare una squadra. È un passaggio di testimone, un rinnovarsi della promessa negli anni attraverso un amore che viene tramandato. Sulla tradizione e sulla storia puntano da sempre club come il Genoa (non a caso il più antico d’Italia) o la Lazio, che nelle sue campagne abbonamenti gioca spesso sul tema dell’antica Roma (soldati romani, aquile, monumenti della città) sottolineando il fatto di essere la “prima squadra della Capitale” e usando slogan come “La storia dice gloria” e “La storia continua”.
Creatività: tori, zebre e lupi
E poi c’è chi, oltre a lanciare il messaggio ai propri tifosi, riesce a non farsi dimenticare anche dagli altri. Campagne abbonamenti che non passano mai inosservate perché divertenti, autoironiche, anche leggermente ardite o maliziose. È il caso del Torino, che nel 2013 giocò con il proprio simbolo, con le parole, con i detti e con gli stereotipi, strappando a tutti un sorriso.
A proposito di fauna simbolica, fu una specie di partita a distanza quella tra Juventus e Roma a cavallo tra 2012 e 2014. I bianconeri, reduci dal primo scudetto di Conte, utilizzarono un concetto caro al loro allenatore per garantire nuovi successi: “Abbiamo ancora fame”. In primo piano una zebra simbolo del club (zebra=erbivoro; d’altra parte lo stesso Conte diceva “La mia squadra deve mangiare l’erba”, per spiegare l’atteggiamento con cui voleva che i suoi affrontassero le partite), ma con l’occhio della tigre (carnivora, predatrice). Risposta, un anno dopo, dai lupi della Roma: “Nessuno ha più fame di noi”, e immagine del branco pronto ad uscire nell’arena (a caccia di zebre?). La campagna abbonamenti successiva (2014/2015), la prima della Roma totalmente americana, nuovo appello ai tifosi, ancora con i canini ben in vista: “Unisciti al branco”.
Il tema della creatività ha sollevato anche qualche polemica, ad esempio quando la Juventus fu accusata di aver “copiato” la propria campagna abbonamenti da quella del Deportivo Badajoz, club spagnolo che milita nella terza serie, e precisamente da un poster di fine maggio con cui i sostenitori venivano invitati alla sfida-clou di campionato. Stessa immagine, mistero presto svelato: la foto (ritraente una ragazza che esulta con il volto pitturato di bianco e nero) era stata trovata su uno dei tanti siti di immagini di repertorio, e casualmente scelta da entrambe le società bianconere. La vera “creatività”, nell’occasione, fu quella della piccolo club spagnolo, che risolse la questione “plagio” con ironia e sportività, postando un tweet che recitava più o meno così: “Se i vicecampioni d’Europa seguono i tuoi passi, vuol dire che sei sulla buona strada. Ciao Juventus, non preoccuparti, la risolviamo con un’amichevole a Badajoz”. Applausi.
Fonte: SkySport