Nazionali in esilio: storie di guerra e pallone
Quando al minuto 91, sullo 0-0, il coraggioso Omar Kharbin sceglie di calciare con il cucchiaio il rigore che può dare la vittoria alla Siria contro l’Uzbekistan, i cuori dei 5 tifosi presenti sugli spalti dell’Hang Jebat Stadium di Malacca devono essersi fermati per qualche istante, giusto il tempo di seguire con lo sguardo quella parabola e vedere la palla entrare in porta. Cinque, nonostante la capienza dello stadio sia di 40mila posti e nonostante la Siria giocasse in casa, per un motivo semplicissimo: Malacca si trova in Malesia. Ed è lì, a oltre 7000 chilometri di distanza da casa e dalla guerra, che la Siria sta cercando di scrivere la sua piccola favola inseguendo una qualificazione al Mondiale che avrebbe del clamoroso.
Fortissimi “in casa” – L’ultimo capitolo (sconfitta per 1-0 contro la Corea del Sud), purtroppo, ha riportato con i piedi per terra una nazionale che, dopo quel folle rigore, si era ritrovata a un solo punto dal terzo posto nel suo girone, che varrebbe lo spareggio per il pass Mondiale. Sogno che adesso dista 4 punti, ma che non toglie nulla all’impresa confezionata fin qui dai siriani, ancora imbattuti “in casa”: 0-0 contro la Corea del Sud all’andata, giocata all’Estadio Campo Desportivo di Taipa, Macao; 0-0 con l’Iran al Rahman Stadium di Seremban, Malesia; vittoria sull’Uzbekistan, come detto, in un altro impianto malese di fronte ai 5 connazionali che casualmente vivono lì, dopo che le autorità locali, con un preavviso di pochi giorni, avevano dichiarato inagibile quello di Seremban, inizialmente designato. Spostamento di 50 chilometri, cosa vuoi che siano quando hai già attraversato 6 fusi orari per giocare in casa. La prossima? Contro la Cina di Lippi, dietro di 3 punti e che tenterà l’aggancio: l’unica cosa certa è la data, il 13 giugno. Dove ancora non si sa.
Il miracolo dell’Iraq – Il professore di matematica britannico Russell Gerrard vanta un database di 22.130 partite giocate dalle nazionali di tutto il mondo. Senza soffermarci troppo su cosa l’abbia portato ad accumulare una simile mole di dati, lo scrittore Simon Kuper e l’economista Stefan Szymanski (autori di “Calcionomica”) hanno attinto a questa fonte per analizzare le gare giocate nel periodo tra il 1980 e il 2001. In una classifica delle squadre stilata in base alla percentuale di risultati utili (considerando dunque anche i pareggi), i primi quattro posti non meravigliano: Brasile (74%), Germania e Francia (71%), Italia (69,5%). Al quinto posto, però, compare l’Iraq. Il dato merita più di una riflessione, la prima legata sicuramente al fatto che “nel periodo considerato i ragazzi di Saddam non venivano invitati molto spesso a giocare amichevoli in Europa”, per cui si tratta di un primato costruito soprattutto affrontando nazionali mediorientali o di altri Paesi asiatici. Resta però il fatto che l’Iraq sia l’unica nazionale insieme al Brasile capace di vincere i propri incontri con una media di più di un gol di scarto e che sia entrata in questa speciale “top 5” giocando quasi sempre fuori casa.
Evadere con il calcio – Costretti a giocare su un campo neutro per buona parte del regime Saddam e con un Paese perennemente in guerra, l’Iraq è riuscito a qualificarsi ai Mondiali del 1986 e a tre edizioni delle Olimpiadi, con il picco della semifinale raggiunta nel 2004 e la medaglia di bronzo persa nella “finalina” con l’Italia (1-0, Gilardino). Una nazionale florida che ha visto crescere la sua generazione d’oro sotto le bombe, tra le minacce e le torture ideate dal figlio di Saddam (Uday, messo a capo della Federazione, che non digeriva le sconfitte) e il perché è presto spiegato. “Nove ragazzini su dieci giocano a calcio dalle tre alle sei ore al giorno, sette giorni su sette – racconta Simon Freeman in “Baghdad Football Club” – E questo da quando hanno cinque anni fino all’università. Sotto Saddam il calcio rappresentava un’evasione dalle durezze della vita e permetteva di tenersi lontano dalla politica”. E Saddam, che come ogni dittatore aveva compreso l’importanza dello sport come strumento di potere e di propaganda, non negava al suo popolo le partite in tv, ma prima di collegarsi con i campi mandava in onda ore e ore con i suoi discorsi.
Libia in bianco – Venendo a tempi più recenti, per ragioni di sicurezza l’Iraq ha continuato a giocare fuori dai suoi confini le partite casalinghe, trasferendosi a Dubai per le qualificazioni alla recente Coppa d’Asia 2015. Qualificazione centrata con il secondo posto nel girone e costruita proprio “in casa”, con 2 delle 3 vittorie ottenute a Dubai. Discorso analogo per la Libia, terza nel suo girone alle ultime Qualificazioni per la Coppa d’Africa, ospitata da Egitto e Tunisia per le sue partite casalinghe, che sul neutro de Il Cairo, contro il Mozambico (vittoria per 1-0) aveva già scritto un pezzetto di storia nel settembre 2011, scendendo per la prima volta in campo con una divisa bianca con la nuova bandiera provvisoria del Paese sul petto, scelta dagli insorti contro il regime di Gheddafi in sostituzione di quella interamente verde, simbolo della Rivoluzione Verde che aveva portato al potere proprio Gheddafi nel 1969.
L’ultima “stranezza” a ottobre del 2016, quando Ucraina-Kosovo valida per le qualificazioni al Mondiale 2018 si è giocata allo stadio Miejski di Cracovia perché l’Ucraina non riconosce lo stato del Kosovo come indipendente e dunque non accetta nemmeno i documenti kosovari, passaporti compresi. Risultato: se gli avversari non possono entrare in Ucraina per giocare, ci si trasferisce tutti altrove.
Fonte: SkySport