MADRID. Il celebre sguardo fiammeggiante, con quel taglio degli occhi che ormai è lo stesso di Diabolik, si addolcisce di colpo, mentre scruta un punto indefinito oltre la vetrata, nell’incredibile azzurro cielo sopra Valdebebas, alla Ciudad Deportiva del Real Madrid: “L’inverno è durato poco ed è già finito. Qua è sempre bello, il sole non manca mai”. Zinedine Zidane sospira di piacere, le palpebre ora sono due fessure. È un uomo sereno, pacificato. Da 14 mesi guida il Madrid ed è già campione d’Europa e del mondo, ha smentito diverse perplessità sul suo conto, si prepara al duro scontro in casa dell’Athletic Bilbao e alla volata della sua seconda stagione sulla panchina più importante che ci sia, mentre chiacchiera in esclusiva per l’Italia con Fox Sports e Repubblica: “Ora viene il difficile, e il bello. Il periodo che i giocatori aspettano di più, ci si gioca tutto. Stiamo bene, contenti di come siamo messi: leader nella Liga e nei quarti di Champions. Non male, no?”.
Domani c’è il sorteggio dei quarti: ha già in mente le avversarie da evitare?
“No. A questo punto del torneo sono tutte temibili, dalle solite grandi fino al Leicester, il club che rovescia ogni pronostico e che nessun allenatore vorrebbe affrontare. C’è solo da aspettare il nostro destino nell’urna”.
Se capitasse la Juventus per lei sarebbe la prima volta da ex: emozionante?
“Eccome. Un’emozione vera. Devo molto alla Juve. Ci arrivai a 24 anni, dal Bordeaux, e per me fu un salto in avanti. Non era un club ai livelli del Madrid, che è il più grande di tutti, ma imparai moltissimo, crebbi come calciatore e come uomo. E i primi tempi giocavo male, non ero inserito, tutti dicevano che ero un acquisto sbagliato. Solo Marcello Lippi credeva in me. Alla fine ebbe ragione lui. Vincemmo un paio di campionati e giocammo una finale di Champions, perdendola”.
Veramente le finali furono due…
“Dice? No, una sola”. Nel 1997 contro il Borussia Dortmund e nel 1998 contro il Real, non ricorda? “Ah già, vero. Avevo rimosso il Borussia. Capita, con le sconfitte”.
Da quando allena il Real la vediamo sorridente, sereno, addolcito: è cambiato qualcosa in lei o ha imparato l’arte del sorriso da Ancelotti?
“Da Carlo ho imparato molto, sicuro. Ma non mi sento così cambiato, ero tranquillo anche da calciatore… (poi un’impercettibile esitazione, ndr) ma quando mi provocavano reagivo, si sa… (lo sguardo si smarrisce, certi ricordi sono indelebili, ndr). Mi vedo uguale a prima. Forse sorrido un po’ di più, è vero”.
Nonostante l’enorme pressione di allenare il Real.
“La avverto, ce n’è un sacco. So bene cosa voglia dire questo ruolo nel club più importante al mondo: è difficilissimo. Ma la mia filosofia è semplice: è una tale enorme fortuna guidare il Madrid e allenare simili giocatori, i migliori del mondo, che me la godo ogni giorno. Certo non è facile, a volte esci insoddisfatto da un allenamento, ma sai che il giorno dopo potrai ripartire, perché la qualità di questa rosa è fantastica. Così ho quasi sempre il sorriso addosso”.
La vita di un allenatore è più lunga di quella di un calciatore…
“…non è detto, anzi. Dipende. Dipende da molte cose”. Perché, non si vede in panchina a 60 anni? “Certo che no. Mi piace quello che faccio, ma a 60 anni starò senz’altro con la mia famiglia, non scherziamo”.
Cosa le piace del suo lavoro e cosa ha imparato da Lippi e Ancelotti?
“Da loro ho imparato moltissimo, è normale. Ora sono un miscuglio di cose e di esperienze. Alla fine, quando alleni, la cosa fondamentale è trasmettere quello che hai qui (la mano risale dallo stomaco allo sterno, con movimento a uscire, ndr), quello che senti davvero. Non posso comportarmi proprio come Marcello o Carlo, sono una persona diversa, ma so che ai giocatori devo passare quello che ho dentro, sennò non funziona, anzi è impossibile che funzioni, e se non funziona devi cambiare qualcosa. Ho sbagliato, e sbaglierò ancora altre volte, ma l’importante è trasmettere me stesso”.
Più facile giocare o allenare?
“Molto più difficile allenare. Il calciatore deve pensare solo a giocare, e se qualcuno vi dice che è stressato pure da altre cose, mica è vero. Da allenatore devi pensare a tutto, tutti i giorni. Vuoi che i tuoi giocatori siano contenti e lavorino bene, e tutti e 24, mica solo alcuni, e devi farli migliorare. Si migliora sempre: io ho continuato a imparare fino a 34 anni, quando mi sono ritirato. Mi piace molto dover gestire un gruppo. Non è per niente facile, ma mi piace”.
Il Madrid è…?
“Il top del top. Il club più grande del mondo. Ricordo le sensazioni del mio primo giorno al Bernabeu, quando il Real mi comprò dalla Juventus. Non avevo mai neppure giocato lì, fui presentato al pubblico, provai un’emozione indimenticabile, come uomo e come calciatore, e mi dissi: “Qui starò da dio. E farò cose meravigliose””.
E quando Florentino Perez le ha chiesto di allenare la prima squadra?
“Stavo preparando una trasferta del Castilla, la squadra B del Real, contro l’Ebro, su un campo sintetico… Arriva il presidente, che qui comanda tutto, e mi chiede se me la sento. Rispondo di sì. Un attimo dopo non pensavo più all’Ebro ma a Cristiano Ronaldo”.
Progetti per il dopo-Real?
“Nessunissimo. Penso solo all’allenamento di domani e alla partita con l’Athletic”.
Difficile vivere senza programmare?
“Al contrario: è molto più facile, è una condizione ideale. E il mio presente è pensare a come uscire con tre punti da Bilbao”.
Scegliere tra la Liga e la Champions?
“È la Liga più equilibrata degli ultimi anni e la Champions è sempre lei, ma non scherziamo, non si sceglie niente. Siamo qui per cercare di vincere tutto, il Madrid è questo. Non devi pensare: devi agire, devi vincere, o fare di tutto per riuscirci. È un’altra cosa che mi piace: l’impegno totale nella costruzione di una vittoria”.
Esiste ora un calciatore paragonabile allo Zidane di un tempo?
“Certo che no. Non mi piacciono i paragoni, ma uno Zidane adesso non esiste proprio”. Del resto lei è stato unico. “Sono d’accordo. Ero unico”.
Scoppia a ridere, saluta. E non sembra affatto Diabolik, ma un fanciullo felice che non vede l’ora di specchiarsi nell’erba brillante di Valdebebas, e di perdersi nel sole.
Fonte: Repubblica