TORINO. SAMI Khedira, domani contro il Porto dovreste entrare tra la prime otto d’Europa: è la stagione giusta per il triplete?
“Potrebbe esserlo ed è un dovere provarci. In campionato siamo messi bene, in Coppa Italia anche. Per vincere la Champions servono stabilità ma anche forma e fortuna: è una combinazione di fattori. Di sicuro la qualità c’è, come lo spirito di squadra: anche chi non gioca è presente, attivo, felice. È difficile scegliere tra 16-17 titolari, ma tutti hanno lo stesso obiettivo chiaro in testa”.
Siete la squadra più vecchia agli ottavi, assieme al Bayern: è l’età perfetta per vincere?
“Qual è l’età perfetta? Non è un numero, ma una sensazione. Il Bayern ha trent’anni, ma lo vedete come gioca? Noi e loro abbiamo la combinazione tra esperienza e freschezza. Siamo nella situazione ideale”.
La sua età com’è, Khedira?
“Perfetta. Ma per me invecchiare è guadagnare. Ho avuto tanti infortuni piccoli e uno grande quando ero nel Real Madrid, ma non mi hanno segnato. Ho avuto difficoltà a livello mentale e spirituale, ma ne sono uscito anche affidandomi a persone preparate, alla medicina alternativa, al training visuale per migliorare la percezione di me. Mi confronto continuamente con il mio corpo e dedico giorno e notte al mio lavoro: non è un caso che questa sia la stagione in cui sto giocando di più. Io mi diverto se gioco, e se gioco sempre è molto molto meglio”.
È in Italia che lei è maturato definitivamente?
“Ho imparato la flessibilità tattica, ma qui si lavora duro sotto ogni aspetto, con precisione, senza lasciare nulla al caso e questo mi ha sorpreso: non si pensa che l’Italia sia così”.
Un tedesco non crede che in Italia si fatichi?
“Gli italiani hanno questa reputazione legata alla dolce vita, mentre i tedeschi sono considerati più severi, più determinati verso l’obiettivo. Quando pensi all’Italia pensi agli spaghetti, alla pizza, al caffè, al vostro talento per godervi la vita, non all’idea che qui si lavori. Ma è un pregiudizio che vale anche per la Spagna, difatti a Madrid ci esercitavamo quasi esclusivamente sulla tecnica e pensavo che in Italia sarebbe stato lo stesso. Invece no, qui gli allenamenti sono molto intensi. Ma se noi tedeschi imparassimo a concederci qualche piacere, aiuteremmo la nostra creatività e miglioreremmo la nostra reputazione”.
Lei quanto è veramente tedesco?
“Mio papà mi ha lasciato un temperamento arabo che ho mescolato alle mie virtù tedesche: credo di essere corretto, gentile, rispettoso e un grande lavoratore. In Spagna e in Italia ho imparato che bere un bicchiere di vino sul terrazzo non toglie nulla alla professionalità, anzi. Ma non mi fermo qui, voglio farmi contagiare da altre culture, mi interessano quella americana e asiatica, voglio cogliere anche i dettagli più insignificanti degli altri popoli. Lo trovo molto interessante”.
Suo padre lasciò la Tunisia per fame?
“No, per amore”.
Per amore?
“Lui e mamma si incontrarono in Tunisia e fu amore a prima vista”.
Fu facile l’esistenza per una coppia mista?
“Trent’anni fa non erano così numerose come oggi, chiaramente erano viste con occhio critico. Papà all’inizio era percepito e si sentiva diverso, però ha imparato il tedesco presto e bene, ha analizzato e soprattutto accettato la cultura e le tradizioni della Germania. Non ha detto: sono musulmano e non mi adeguo. Ha dato e quindi ricevuto rispetto. Quando si parla di integrazione, il punto fondamentale è sapere accettare e adeguarsi alla mentalità e alle regole del paese che ci ospita, non ostinarsi a volerle cambiare”.
La famiglia di sua mamma come reagì al fatto che decise di sposare un africano?
“Anteponendo la conoscenza ai pregiudizi. Ha concesso a mio padre la possibilità di farsi ascoltare, in modo da poterne dare una valutazione. Non possiamo piacere a tutti e non ci possono piacere tutti, non ci sarà mai solo amore nel mondo, ma prima di decidere se una persona ci piace e no bisogna valutarla. Così è stato per i miei genitori. Papà ha dimostrato lealtà, correttezza e grande capacità di adattamento. Alla fine, la convivenza è sempre un compromesso”.
È un compromesso tra diversità ad avere fatto grande la nazionale tedesca?
“Non è stata una sorpresa, sono cresciuto nel melting pot. Ma dal 2006 è cambiata la visione di queste cose: molti di noi non sono tedeschi al 100 per 100 nella provenienza o nell’aspetto, ma lo siamo per come ci identifichiamo in questa nazione. Non ci sono vecchi o nuovi tedeschi, tutti parlano benissimo la lingua, certe sfumature non si colgono nemmeno più”.
Si dice affascinato dalla cultura americana: allora è vero che l’anno prossimo andrà a giocare negli Usa?
“Nel mio futuro vedo il viaggio. Andrò in America, ma non adesso: voglio giocare ad alto livello per diversi anni ancora, mi sento bene da un punto di vista fisico e mentale. In giro ci sono grandi giocatori ma non è che siano tanti quelli più bravi di me: voglio vincere la Champions, voglio difendere il titolo mondiale con la Germania e tutto questo non sarebbe possibile andando in Usa o in Cina. Guadagno bene anche qui, tra l’altro”.
Le manca non avere mai giocato in un grande club della Bundesliga?
“No. Lo Stoccarda è la mia squadra del cuore e sono fiero che sia l’unica maglia tedesca della mia vita. In futuro tornerò a dare un mano, magari con un altro ruolo, ma prima giocherò per un po’ di anni ancora e poi mi prenderò una pausa per girare il mondo. Non so se sarà di un anno, più lunga e più corta: dipenderà da quanto tempo avrò bisogno di dedicare a me stesso”.
Quale piacere ha imparato a godersi, in Italia?
“Bere un caffè in centro, o gustarmi un bicchiere di vino rosso”.
È un esperto?
“No, mi fido di Barzagli e Marchisio”.
Fonte: Repubblica