ROMA – L’appuntamento per fare due chiacchiere Dino Zoff lo fissa in uno dei circoli storici di Roma, di quelli che affacciano sulle sponde del Tevere. Il tempo di una stretta di mano e si comincia.
Gli almanacchi recitano: Dino Zoff, nato il 28 febbraio 1942 a Mariano del Friuli. Tutti hanno presente la sua figura di monumento dello sport italiano. Ma il Dino Zoff bambino com’era?
“Ero un bambino normale di quei tempi, avevo la possibilità di giocare sempre. Negli anni cinquanta non c’erano pericoli nei paesi, si giocava e si trovava posto dappertutto, anche nei campi. Una fanciullezza straordinaria. Facevo qualsiasi genere di sport anche se non era codificato come tale”.
L’idea del bambino porta inevitabilmente a quella dei genitori. Che emozioni, quali ricordi porta con sé di loro?
“Ovviamente porto con me delle emozioni legate a mio padre e a mia madre ma, a dire il vero, ho anche dei rimorsi perché mi sembra di aver fatto poco per loro. Forse sono considerazioni che si fanno in vecchiaia… La mia era una famiglia contadina, che lavorava la terra con tutta la fatica che questo comportava. A casa mia c’è sempre stata la concretezza, un approccio alle cose che mi è servito poi nella mia professione di calciatore. In altre parole non esistevano le scuse, mi è stato trasmesso il senso della responsabilità. Da loro ho appreso questa linea di comportamento senza il ricorso a tante parole”.
Questo tipo di educazione oggi funzionerebbe ancora?
“Ci sono certe regole basilari che dovrebbero ancora funzionare perché il comportamento, la dignità, l’onestà, fare bene il proprio lavoro sono valori che raccolgono tutto: professionalità, voglia, passione. Certo, oggi viviamo in un mondo nel quale in ventiquattr’ore cambia tutto, però le cose basilari dovrebbero rimanere”.
A proposito di cose basilari: cosa significa per lei l’amicizia?
“E’ un rapporto quasi intimo, una simpatia corrisposta, il sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda. Nell’amicizia ci sono delle regole straordinarie: io a un amico non ho mai chiesto una cosa che avrebbe potuto metterlo in difficoltà, anche in situazioni dove ero io a esserlo”.
A più di trent’anni dal suo ritiro dai campi di gioco, che rapporto ha con la sua carriera di calciatore?
“Ho un rapporto di contrasto. E’ vero, ho fatto cose straordinarie però, essendo poco umile nel mio campo di competenza, mi sento sempre responsabile per qualche cosa in più che avrei potuto fare. E’ il motivo per cui vedo poche delle partite che ho disputato, anche le migliori, perché trovo sempre qualcosa che non andava. Tutta la mia vita è in una frase di mio padre. Credo che la disse ai tempi in cui giocavo nel Napoli: presi un gol su un tiro non irresistibile. Lui mi chiese: ‘Come mai hai preso quel gol?’. Al che gli risposi che non me lo aspettavo. E lui replicò: ‘Ma perché, tu cosa fai, il farmacista?’. E’ una sintesi dell’atmosfera che c’era a casa mia, il concetto a cui accennavo prima dell’impossibilità di accampare scuse. Anche se poi, quando si commetteva un errore, tutta questa severità non c’era”.
Lei si è guadagnato anche la stima dei non juventini. Come se lo spiega?
“Al di là del fatto che oltre alla maglia della Juventus ho vestito anche quelle dell’Udinese, del Mantova, del Napoli e della Nazionale, sono comunque considerato uno sopra le parti. Non ho mai trovato dei tifosi contro, sono sempre stato apprezzato anche dagli avversari. Prenda il Presidente Viola, che con la Juventus ce l’aveva non poco: eppure con me è sempre stato gentilissimo”.
Facciamo un salto ai due mondiali di Argentina e Spagna: partenze con molte critiche e rientri trionfali. Quali sono state le differenze, risultato finale a parte?
“Differenze direi poche: ci furono tante critiche in entrambe le occasioni. Si era creato un certo contrasto soprattutto con Bearzot, quasi per partito preso, perché era uno che portava avanti le sue idee con determinazione. L’anno prima del mondiale in Spagna non chiamò Beccalossi in nazionale: naturalmente tutta la critica lo fece diventare il giocatore dell’anno. Però lui aveva l’unica visione che serve per vincere: idee e convinzioni. Il calcio è semplice. La difficoltà maggiore, oggi ancora più che ai miei tempi, è la conduzione degli uomini: riuscire a creare i presupposti di squadra. Oggi, lo ripeto, è più difficile, perché se un calciatore non gioca i procuratori, se non addirittura le mogli, cominciano a rompere le palle. Inoltre Bearzot era un uomo di cultura: quando qualcuno citava una frase in latino, se era sbagliata lui la sapeva correggere. Siamo riusciti a vincere per questa forza. Ai mondiali del 1974, dove erano in quattro a comandare, ovviamente siamo usciti al primo turno. E’ una regola: il rispetto dei ruoli è determinante”.
Quella sera di Madrid, quando l’arbitro fischiò, sapevate che stavate entrando nella storia delle persone?
“Ma no… lo sport è così immediato, così violento nel sentire. In quel momento sei fuori di testa, vivi nelle nuvole, hai una felicità così prorompente senza pensare troppo a quello che c’è intorno, a quello che succederà dopo. E’ il titolo del mio libro: La Gloria Dura Un Attimo. Essere in gloria dura un attimo. La gloria ce l’ho tutt’ora, si traduce nel fatto che tu sei qui per intervistarmi, che sono stimato ovunque vada. E’ il momento dell’essere in gloria che dura poco. Del resto non si può vivere in gloria per una vita intera”.
Lei arrivò a Roma dopo l’addio alla Juventus. Una separazione senza particolari clamori, anche se era piuttosto clamorosa.
“Ad essere precisi era una separazione che arrivava alla scadenza del contratto. Naturalmente non è stata indolore per me”.
Il giocatore più bravo con cui ha giocato e il migliore che ha affrontato.
“Il compagno più bravo è stato senza dubbio Sivori, che era considerato il Maradona dei suoi tempi. Quanto agli avversari, avendo giocato contro un Pelè ormai nella fase finale della sua carriera, il migliore che ho affrontato è stato Maradona. Poi Cruijff, Platini, Beckenbauer. Ma Maradona e Pelè furono l’espressione assoluta dei fenomeni”.
Il dualismo con Albertosi?
“Era dettato dal fatto di essere completamente diversi. Ma era un grande portiere, veramente capace”.
Oltre al calcio, cosa l’ha appassionata di più nella vita?
“Senza dubbio gli sport motoristici. Li ho sempre seguiti fin da bambino, le due e le quattro ruote”.
Il calcio, oggi, secondo lei dove sta andando?
“Più che altro mi domanderei dove sta andando il mondo. Il calcio, a parte qualche regola che cambia, rimane sempre lo stesso. Chi poteva pensare che sarebbero venuti i cinesi a comprare le squadre italiane, noi che, dopo gli inglesi, ci sentivamo i padroni del calcio?”.
Secondo lei potrà funzionare?
“C’è il rischio di perdere valori e tradizioni, però il mondo va avanti. Poi non so se potrà funzionare. I cinesi vengono qui per poi importare il calcio da loro. Quando questo processo sarà avvenuto, non so qui da noi cosa resterà. Io credo nelle tradizioni. Prendi Wimbledon, ad esempio, il concetto di divisa bianca. La tradizione dà importanza alle cose, non è qualcosa di vecchio da buttare via. Capisco anche che, nella vita, ci sono pure delle tradizioni che spariscono: il mondo moderno brucia tutto in ventiquattro ore. E’ difficile capire come si svilupperà il processo”.
Fonte: Repubblica