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“Mamma, basta voodoo”: storie di Coppa d’Africa

Si riparte dal gol di un portiere, il rigore con cui Boubacar “Copa” Barry decise la finale del 2015 regalando la vittoria alla Costa d’Avorio al termine di una serie di 22 tiri dal dischetto che aveva reso necessaria anche la partecipazione dei due numeri 1 in qualità di tiratori. Barry prima para il tiro del collega ghanese Razak, poi gli segna quello decisivo. Il destino gli restituisce così ciò che gli aveva tolto nel 2012, quando paradossalmente non era riuscito a vincere la Coppa pur avendo chiuso la rassegna senza subire gol, sconfitto in finale ai rigori dallo Zambia.

Già, lo Zambia. Il destino. Qui si apre il libro di quelle che di solito chiamiamo “favole del calcio”. Questa favola però inizia con una tragedia, lo schianto dell’aereo che trasportava la nazionale dello Zambia a Dakar per una partita di qualificazione mondiale. È il 27 aprile 1993, l’aereo che ha fatto scalo a Libreville, in Gabon, riparte, ma pochi minuti dopo il decollo si inabissa nell’Oceano Atlantico di fronte alla città. Di quella promettente squadra, fiore all’occhiello del calcio africano, si salvano solo i tre che all’epoca giocavano in club europei e che avrebbero raggiunto i compagni con mezzi propri: Johnson Bwalya del Bulle, Charles Musonda dell’Anderlecht (padre di Charly, attaccante classe ‘96 di proprietà del Chelsea che la Roma tratta in questi giorni) e la stella Kalusha Bwalya, del Psv Eindhoven. Quest’ultimo, simbolo della squadra, promette sulle tombe dei compagni che farà di tutto per riportare in alto lo Zambia. Ci prova da giocatore, conducendo a suon di gol una nazionale ricostruita dal nulla a una finale di Coppa d’Africa (nel 1994, persa contro la Nigeria) e a un terzo posto (nel 1996; Bwalya capocannoniere). Ci prova da allenatore, ma lo Zambia fallisce la qualificazione al Mondiale 2006 ed esce al primo turno della Coppa. Sembra una maledizione, Bwalya si dimette. Fine primo tempo.

Secondo tempo. Bwalya ci ripensa e torna da presidente della Federazione, l’unica carica che gli manca. Alla vigilia dell’edizione 2012, che si gioca in Gabon, licenzia a sorpresa il Ct che ha portato la squadra alla qualificazione, l’italiano Dario Bonetti, e sceglie il francese Hervé Renard. Lo Zambia batte il Senegal nel girone, il Sudan ai quarti, il Ghana in semifinale e arriva a giocarsi la Coppa con la favoritissima Costa d’Avorio di Drogba, Gervinho e dei Tourè, che non ha subìto nemmeno un gol in tutto il torneo. Al 70’ si inizia a intravedere un piano divino. Rigore per la Costa d’Avorio, tira Drogba e spara alto, in cielo: sembra un segnale. 0-0, si va ai rigori. Una serie lunghissima durante la quale i giocatori dello Zambia pregano insieme in memoria dei loro ex compagni, morti a poca distanza da quello stadio.

Quando anche Gervinho calcia alto, l’occasione della vita è sui piedi del difensore Sunzu, che va sul dischetto cantando. Segna, e scatta una festa fatta di abbracci, preghiere, lacrime, canti, ricordi. Tutti in cerchio, proprio a Libreville, dove tutto aveva avuto inizio 19 anni prima e dove il cerchio magico si chiude. Canta e balla anche Renard, che ammette: “Non siamo i migliori. Ma avevamo una spinta in più”. C’è solo un giocatore che non riesce a partecipare alla festa in campo:  Joseph Musonda (nessuna parentela con il Musonda sopravvissuto), uscito per infortunio dopo appena 10’, zoppica e non può raggiungere i compagni in campo. Renard allora lo porta in braccio a festeggiare con gli altri. Guardate questo video: se non si vengono i brividi non siete umani.

Ci sarà anche in questa edizione, quel tenerone di Renard, stavolta alla guida del Marocco e a caccia del terzo trionfo personale, dato che dopo il successo alla guida dello Zambia ha bissato nel 2015 sulla panchina della Costa d’Avorio (evidentemente convinta delle sue doti “magiche”). Altro guru è Claude le Roy, “lo stregone bianco” che in Africa ha allenato le nazionali di Camerun (con cui vinse la Coppa nel 1988), Senegal, Congo e Ghana, prima di approdare sulla panchina del Togo nel 2016.

Tra i giocatori che ha selezionato per questa edizione non poteva mancare il monumento nazionale Adebayor: leader, simbolo, capitano e… disoccupato. Spaventosa la sua parabola: l’esplosione nel Monaco, la maturazione con l’Arsenal, il biennio da sceicco al City (ricordato solo per l’esultanza polemica sotto il settore dei tifosi Gunners, dopo un gol segnato alla sua ex-squadra), addirittura il Real Madrid. Poi il Tottenham, dove l’avventura inizia bene e rotola fino alla rescissione del contratto quando il club lo lasciò libero di risolvere i suoi problemi familiari, che secondo i tabloid ne stavano minando la salute mentale. Storie di litigi con i fratelli, da lui accusati di derubarlo, e con la madre che – parole sue – “tramava juju”, riti di stregoneria, affinché non segnasse. Le ultime notizie che si hanno di lui sono relative a un colloquio con il Lione nel settembre 2016, avvenuto in un bar, dove si sarebbe presentato ordinando un caffè allungato con whisky e con la sigaretta in bocca. Contratto andato in fumo, ovviamente.

A proposito di magia nera: per la serie “non è vero ma ci credo”, nel 2002 il mitico Thomas N’Kono, all’epoca preparatore dei portieri al seguito del Camerun, fu arrestato dalla polizia del Mali dopo essere stato sorpreso ad armeggiare vicino a un palo della porta poco prima della semifinale tra i padroni di casa e la sua nazionale. Entrano in campo in 10, per prelevarlo: l’accusa è quella di aver cercato di lasciare in campo un non meglio identificato “oggetto magico” per aiutare i compagni. Fondata o meno, il Camerun alla fine vinse. Prima la partita e tre giorni dopo (con N’Kono libero) la Coppa.

Fonte: Sky

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