ROMA Q uando gli chiedi del suo 2016 non prende tempo. E risponde al volo: “Un anno positivo. Poteva essere migliore, io non mi accontento mai. Con il Toro siamo a cinque punti dalla zona Europa e abbiamo il terzo attacco della Serie A. Prima ancora avevo lasciato il Milan al sesto posto e in finale di Coppa Italia”. Sinisa Mihajlovic, 47 anni, capelli corti e brizzolati, giubbotto della tuta e jeans, da sei mesi allenatore del Torino, è fatto così: istintivo e diretto. Prima in campo, poi in panchina. E così ora che risponde alle domande nel salone di casa sua affacciato sulla vista mozzafiato di Roma, da Nord verso Sud, l’albero di Natale acceso e addobbato. Qui dove abita con la moglie Arianna e i loro cinque figli. “Questa è casa per me, ho smesso di viaggiare con la famiglia quando fui ingaggiato come ct della Serbia, quattro anni fa. Da allora vivo solo, in albergo, nelle città dove alleno”.
Torino, per esempio.
“La vivo poco, perché lavoro tanto. Esco dall’hotel la mattina presto e ci torno quando è già buio. Passo la giornata al campo. Non vado in giro, qualche volta fuori a cena”.
Ha esultato per il successo del Milan in Supercoppa?
“Quella sera ero qui a Roma, a teatro con la famiglia. Mi ha chiamato Galliani, per ringraziarmi: qualche merito di quel successo evidentemente ce l’ho anche io. E sono felice per i giocatori”.
Il Milan dei giovani italiani e di Donnarumma, che lei fece esordire: quando e come si capisce che è il momento di far debuttare in A un ragazzo?
“Serve solo un po’ di coraggio. I giovani, almeno all’inizio, possono difettare in continuità, ma se non li fai giocare non potranno diventare forti. Per me conta il campo, non l’età: di giovani ne ho lanciati già molti, da ct della Serbia facevo giocare ragazzi di 18, 19 anni. È questione di mentalità: ci sono allenatori che non rischiano perché poi magari le cose non vanno bene, ti mandano via e un altro arriva a raccogliere i frutti del tuo lavoro. Io non sono così. Per me lanciarli è motivo di orgoglio, una soddisfazione vera”.
Parliamo di Donnarumma…
“L’avrei fatto giocare già dopo il mio primo mese al Milan: fortissimo. Avevo un dubbio sulla sua tenuta psicologica, poi ho scoperto che non teme la pressione. Non era un periodo facile: a Milano si parlava del mio esonero dopo ogni domenica senza vittoria, ma visto quel che Gigio faceva in allenamento non ebbi dubbi. Lo chiamai e gli chiesi se se la sentiva, lui disse di sì, gli spiegai che poteva anche sbagliare, finché sarei stato in panchina sarebbe stato il portiere titolare del Milan. Lo feci esordire contro il Sassuolo. Vincemmo e parò bene, fece solo un errore prendendo gol sul suo palo. Ma, e questo lo rende speciale, impara in fretta: non ripete mai lo stesso errore”.
Il Milan ora sembra diviso tra vecchia e nuova proprietà, in una trattativa infinita…
“Situazione strana, che spero si risolva presto. Per i giocatori, i dirigenti e i tifosi”.
Le squadre cinesi fanno shopping in Europa, comprando anche giocatori nel pieno della carriera, da Oscar a Witsel…
“Quando ti offrono tutti quei soldi è difficile resistere. La carriera di un calciatore è breve: alla fine tutti hanno un prezzo…”.
Il suo Torino schiera molti giovani: sorprese?
“Li stiamo già facendo giocare, non saranno sorprese, ma devono migliorare e confermare il loro valore: da Barreca a Lukic e Boye. E quelli già noti: Baselli, Benassi, senza contare Belotti”.
Mercato: cosa si aspetta?
“Il Torino non si può permettere fuoriclasse in grado di cambiare il rendimento della squadra, dobbiamo puntare a migliorare la rosa in diversi punti e solo dalla somma di quei piccoli miglioramenti deriverà un beneficio. Servono personalità ed esperienza”.
Lei parla sempre di percentuali, a che punto siete?
“Al 50%: ci sono ampi margini di miglioramento. Ma preferisco parlare di atteggiamento in campo e principi morali…”.
Ovvero?
“Applicare i nostri schemi, adottare un gioco propositivo, d’attacco per provare a vincere. E quel che conta di più: rispettare la maglia, i tifosi e la storia di questo club con impegno e dedizione. Ovvero, il Dna del Toro”.
L’obiettivo resta l’Europa?
“Sì, i miei giocatori devono abituarsi alla pressione, allo stress da vittoria che può creare ansia”.
Che ruolo ha l’allenatore?
“Pretendo lealtà e rispetto, ma sono il primo a garantire lealtà e rispetto ai miei giocatori. Le cose le dico in faccia, sono sincero. Poi, ognuno è diversa: devi adattarti al loro carattere”.
Allenatore o psicologo?
“Tutti ormai allenano bene, la differenza la fa la testa. Serve per gestire un gruppo e i singoli”.
Il lavoro è un valore assoluto?
“È fondamentale. Penso al calcio 24 ore su 24: è la mia passione e mi fa stare bene”.
Pregi e difetti?
“Detesto l’ipocrisia e il moralismo che pervadono anche il calcio. A volte sbaglio perché reagisco d’istinto, però mi prendo le mie responsabilità”.
Quanto sono diversi i calciatori di oggi rispetto a quelli della sua generazione?
“Sono molto più professionali ma hanno meno passione”.
Ci sono ancora leader negli spogliatoi?
“Meno di una volta, oggi tocca all’allenatore farsi sentire. A noi non serviva, le cose le sistemavamo tra noi, il mister non si impicciava. Oggi vedo troppo buonismo, però l’allenatore non può spingersi oltre certi limiti, deve gestire con equilibrio i rapporti”.
Presidenti: meglio Cairo o Berlusconi?
“Con Cairo c’è maggiore sintonia. Ma è un paragone azzardato: vivono epoche diverse”. Scudetto: sempre e solo Juve? “Sono fortissimi, sia in campo sia come organizzazione societaria”.
Una partita del 2016 che vorrebbe rigiocare?
“Il derby, per dimostrare che se non subiamo gol 40 secondi dopo le sostituzioni, lo vinciamo noi. Proprio grazie a quei cambi: io li faccio sempre per provare a vincere, non per difendere un pareggio. Questo è il mio modo di pensare il calcio”.
Fonte: Repubblica