Bagnoli, elogio del tecnico in tuta «Con Sarri vince il calcio umile»
Di lui non si può certo affermare che sia stato un innovatore tattico o un rivoluzionario in senso calcistico. Eppure pochi comehanno saputo sottolineare l’importanza dell’allenatore grazie al proprio lavoro. Ha smentito il teorema che vorrebbe ininfluente il ruolo del tecnico senza la presenza di adeguati fuoriclasse. Il Verona dell’85, ultimo intruso al tavolo dello scudetto riservato alle solite grandi, non aveva grandi campioni ma era un gruppo di buoni giocatori: Bagnoli, con quel suo fare ammiccante e riservato, riuscì a portarlo alla conquista di uno storico tricolore. Superando chi quei fuoriclasse li aveva davvero. Il Napoli di trent’anni fa si presentò a Verona con un certo Maradona ben esposto in vetrina. «Ricordo quella gara, era la prima giornata di campionato. Fu l’inizio della nostra cavalcata, il nostro assetto li sorprese, forse non si aspettavano un Verona così battagliero e determinato».
Il suo credo era il catenaccio, rigide marcature a uomo e poi via a schizzare in contropiede. E poi quel panzer di Briegel su Maradona.
«Le confesso una cosa. Avevo pensato a Fontolan in marcatura su Diego ma il ragazzo non era disponibile. Virai su Volpato, che prendeva in consegna il centrocampista offensivo della formazione avversaria. Poi, in una chiacchierata casuale con Briegel, il tedesco mi disse che aveva già marcato un paio di volte Maradona con la sua nazionale. Sapeva come bloccarlo, se la sentiva e allora non ebbi dubbi: vai e fermalo, gli dissi. Pensate che fece pure gol».
È stato soprannominato il mago della Bovisa, dal nome del quartiere semplice e umile della periferia milanese dove è nato e cresciuto. Come il suo calcio, pratico ed essenziale.
«Diciamo pure all’italiana, in quegli anni si giocava così. Però ero certo di una cosa: una squadra è compatta in campo se lo è fuori. Il mio Verona era un gruppo meraviglioso, lo scudetto cominciammo a costruirlo dentro il nostro spogliatoio».
Lei andava in panchina con la tuta. Oggi lo fa Sarri.
«Per me era una questione di comodità. Alla fine di ogni partita, c’erano da allenare i ragazzi che non avevano giocato. E io volevo osservare il loro lavoro perché un allenatore deve seguire tutto il gruppo, non soltanto gli undici che vanno in campo».
Conosce Sarri?
«Non personalmente. Però vedo che sta facendo grandi cose a Napoli».
Semplice, umile, organizzatissimo tatticamente, le somiglia molto. Si rivede un po’ in lui?
«Sono cose che dovete dire voi. La critica mi dipinse per quello che sono, tutto sommato una persona normale. Se riscontrate queste caratteristiche nel carattere di Sarri, vuol dire che abbiamo qualcosina in comune».
Il campionato riparte domenica con Verona-Napoli, che non è mai stata una sfida uguale a tutte le altre.
«È vero, era così pure quando allenavo. Ma non per la rivalità accesa tra le due tifoserie. Il Napoli è sempre considerato una big dalle nostre parti, esercita lo stesso fascino della Juventus e delle milanesi. Quando arrivano gli azzurri al Bentegodi, i veronesi vanno allo stadio per vedere una grande partita. È quello che farò anche io. A ottant’anni suonati non vado allo stadio tutte le domeniche, domenica ci sarò perché non voglio perdermi questo Napoli».
Lo avrà visto in televisione, però.
«Certo. Gioca bene e non sono il primo o l’unico a dirlo. Sa cosa mi colpisce maggiormente?».
No, che cosa?
«L’unione del gruppo. È il discorso che facevo prima. Tanta armonia in campo lascia credere che quello azzurro è uno spogliatoio di ferro».
Il merito è del suo collega Sarri.
«Devo riconoscere che non è facile fare andare d’accordo tutta quella gente. Ma se lui ci sta riuscendo vuol dire che è davvero bravo».
IL MATTINO