PABLO Dana, è il banchiere italiano di Dubai che ha portato il thailandese Mister Bee alla discussa trattativa per il Milan, ma è diventato soprattutto l’uomo che vuol fare comprare la serie A dagli stranieri.
“Il primo contatto per Bee l’ho stabilito io, poi la cosa è andata avanti. Conosco molti investitori stranieri che apprezzano il calcio europeo, in particolare quello italiano. Io sono il facilitatore: li facilito nei contatti”.
Milan, Genoa, Sampdoria, Fiorentina, Inter: il suo nome è comparso spesso, con l’etichetta di fumosità.
“Lascio parlare i fatti. Sono vincolato da contratti di riservatezza, i nomi dei potenziali acquirenti e dei loro obiettivi non li faccio. Ma la mia Heritage Wealth Investment Bank ha già ricevuto due mandati ufficiali: uno di acquisizione di una società di serie A, l’altro di partecipazione minoritaria”.
Quando si parla di capitali esteri, l’obiezione principale è la scarsa trasparenza.
“Direi esattamente il contrario. Oggi il calcio italiano è svalutato, perché non ha saputo vendersi fuori. E il problema è proprio la mancanza di trasparenza del suo governo. Le prospettive di crescita sono enormi, ma non prescindono da risanamento economico e trasparenza, soprattutto dei consigli di amministrazione dei club e dei vertici. La massima chiarezza attira gli investitori seri e dal portafoglio più ricco”.
Appunto: perché investire in un campionato svalutato, pieno di scandali e con gli stadi vuoti?
“Premesso che la valorizzazione del Milan a un miliardo di euro è un unicum e non può essere assunta come parametro, il valore dei club della A resta notevole e nasce dal fascino del made in Italy. L’esempio freschissimo è il successo della quotazione della Ferrari a Wall Street. Tra l’altro gli Usa, per il calcio italiano, rappresentano un mercato di grande prospettiva”.
I nuovi compratori arriverebbero da lì?
“Per ora soprattutto dall’Arabia Saudita, dalla Russia e dall’Austria. Con sviluppi interessanti da parte di imprenditori di Iran e Azerbaigian “.
Parrebbe più logico che continuassero a indirizzarsi verso campionati più redditizi, come la Premier League.
“Questa tipologia di imprenditori non va più a Parigi o in Inghilterra, ma al massimo nella Francia del sud o in Spagna. Hanno uno spirito latino, amano l’Italia. C’è chi lo fa anche per ego, il calcio è una vetrina impressionante. Esempio: chi oggi ha una partecipazione in una squadra italiana ha una visibilità strepitosa in Arabia Saudita o in Russia. E per un imprenditore questo conta, oltre al gusto della sfida”.
Quale sfida?
“Per un multimilionario, abituato a spendere 10-20 milioni in qualche sfizio, non è secondaria l’idea di portare una squadra al successo anche economico. Gli investitori stranieri hanno capito che possono sviluppare sinergie con le loro aziende, guadagnando anche molto. In Premier League sta succedendo: dopo 7-8 anni di investimenti, alcuni club hanno un ritorno finanziario”.
Perché non lo potrebbe fare un imprenditore italiano?
“Puo farlo, se capisce che è finita l’era del presidente-mecenate: l’internazionalizzazione è necessità. Nei club serve più inglese, e non quello scimmiottato. E servono finanziamenti: o si comincia a guadagnare o si apre ai fondi esteri, non si scappa. La religione calcio può produrre utili. E il calcio è la vetrina dell’Italia, anche delle altre aziende italiane. Solo che va gestito finalmente bene, aprendosi al mondo”.
Fonte: Repubblica