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L’occhio del Trap: “Il calcio italiano? Un serpente che si morde la coda”

TALAMONE – “GUARDO decine di partite in tv e penso a cosa farei io, alla tattica, ai cambi. Diciamo che mi tengo allenato, mentalmente”. Parole e sorriso di Giovanni Trapattoni, anni 75, nel suo ritiro estivo di Talamone. Gli squilla il cellulare, epoca pre-smartphone, lui fissa il display stringendo gli occhi azzurri fino a farli diventare due fessure, poi risponde. Pochi minuti e riattacca: “Devo parlarne con mia moglie, ché alla fine decide lei”.

Proposta di lavoro, Trap?
“Sì, allenare in Indonesia. Affascinante ma sono almeno 14 ore di volo, chissà cosa ne dice Paola”.

Nel frattempo, inizia una nuova avventura.
“In tv: alla Domenica Sportiva e sono sotto contratto con la Rai anche le partite della Nazionale. Con una penale da pagare, nel caso che mollassi tutto per tornare ad allenare…”.

Quindi la tentazione c’è.
“Mi manca il campo e l’adrenalina. A smontarmi ci pensa mia moglie: ‘Ricordati che hai 75 anni’, ripete. Ma io mi sento bene: lucido. Mi hanno cercato in tanti, negli ultimi mesi: dalla Finlandia all’Estonia e molti club. Meglio una nazionale comunque “.

Perché?
“Con i club ho già dato. Niente trasferimenti. Una nazionale ti permette di tornare a casa regolarmente “.

Domenica è di nuovo serie A.
“Con la Juve da battere, ma le altre si sono attrezzate. La Roma soprattutto: Garcia è bravo, si è pure italianizzato e Salah è un ottimo acquisto. Poi Inter e Milan, dovranno partire forte se no sai le critiche…. E Lazio, Napoli, ormai tutt’altro che sorprese”.

Bianconeri verso il quinto scudetto consecutivo?
“Non è detto: hanno mentalità e consapevolezza, ma potrebbero pagare il cambio generazionale imposto dagli addii di Tevez e Pirlo”.

Come sta il calcio italiano?
“Siamo come un serpente con la coda in bocca…”.

Prego?
“Ma sì, siamo sempre lì: i tifosi vogliono vincere, le società devono trovare soldi per fare acquisti importanti, ma gli stadi sono vuoti e vanno fatti quadrare i bilanci, tra crisi e fairplay finanziario”.

E poi scandali, inchieste e violenze…
“Il calcio italiano è al capolinea, deve ripartire dalle origini. I tifosi che fanno i tifosi, le società che fanno le società e così via: cambiare metodi, ripristinare il senso del limite. E interrompere la spirale di violenza. Se no, il rischio è che a livello internazionale ce la facciano pagare”.

Lei ha attraversato più di mezzo secolo di calcio: quanto è cambiato?
“Tantissimo, nemmeno i palloni sono rimasti gli stessi… Ma poi è anche vero che in campo determinazione, intelligenza e talento continuano a fare la differenza “.

Bilancio personale?
“La mia vita è stata segnata da quelli che chiamo passaggi a livello: la sbarra si è alzata al momento giusto, quasi sempre. Quand’ero ragazzino mio padre, bergamasco, non voleva che giocassi a pallone, diceva che mi sarei rovinato la salute e arrivò a bruciarmi gli scarpini. Poi la sbarra si è alzata, lui se ne fece una ragione e io entrai nel vivaio del Milan. E di nuovo, quando sono andato ad allenare la Juve. E ancora al Bayern Monaco”.

Momento-chiave?
“Il calcio tedesco era tutto istinto e forza fisica, i giocatori correvano tantissimo ma c’era poca tattica: credo di averli introdotti al ragionamento in campo. E intanto mi mettevo in discussione, a 50 anni, studiando il tedesco. E vincendo, anche lì: un campionato e due coppe”.

Poi, la conferenza stampa su Strunz.
“Quella storia mi ha reso più famoso che per quanto avevo fatto e vinto fino ad allora…”.

Da allenatore: psicologo o autoritario?
“Direi quasi prete-confessore… Perché con i giocatori c’era bisogno di parlare, ascoltare, spiegare. Per ore, in campo e nelle loro camere. Me lo insegnò l’Avvocato: ‘Non possiamo pensare di spiegare loro i nostri tempi, sono giovani e hanno un mondo diverso dal nostro'”.

E oggi, Trap?
“Vedo i giovani più fragili: vogliono il successo e se lo aspettano, gli manca la fase intermedia. Sacrificio, umiltà, responsabilità: valori che vanno insegnati, insieme a tecnica e tattica”.

Problema italiano?
“No, ormai globale. Ma da noi l’esigenza del risultato ammazza tutto, a livello giovanile e pure in famiglia, dove si vive il talento del figlio come possibile guadagno per il futuro”.

All’estero è meglio?
“Nella mia esperienza, se tu in Irlanda o in Germania dici chi gioca gli altri non se la prendono: sanno di far parte di una squadra, è la loro cultura, mentre da noi c’è sempre chi mugugna”.

Qual è il segreto con cui il Trap ha fatto la storia del calcio?
“Mia moglie Paola, è stata e rimane il mio punto di equilibrio, ha evitato che il calcio mi dominasse mandandomi in crisi. Anche e soprattutto nelle difficoltà, dopo le sconfitte”.

Come si superano, le sconfitte?
“Fiducia e tenacia, senza mollare mai. Rimettendosi in gioco per poi ripartire”.

In contropiede dunque?
“Sempre”.

Fonte: Repubblica

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