Dal Maracanazo del ‘50 al Mineirazo: così la Seleçao torna indietro di 64 anni
Il «dopo» fu peggio di un bollettino di guerra: 34 suicidi e 56 morti per attacco cardiaco. E a confermare l’avvenuta tragedia il governo proclamò tre giorni di lutto. Questo accadde il 16 luglio 1950, il giorno del «Maracanazo»: l’Uruguay sconfisse il Brasile nell’ultima partita nella manifestazione e si portò a casa la coppa del mondo. Non fu soltanto una Waterloo, ma molto di più. Per rialzarsi i brasiliani impiegarono otto anni e comunque, quella macchia, nemmeno le imprese di Pelè e dei suoi amici riuscirono a cancellarla. E ora, anche se con un nome diverso, torna l’incubo: da «Maracanazo» a «Mineirazo».
Discorso Alla vigilia di quella sfida decisiva i giornali di Rio de Janeiro uscirono con titoli trionfalistici. Sotto la foto della nazionale brasiliana, queste parole: «Ecco i nostri campioni del mondo!». Vennero vendute 500 mila magliette con la scritta «Brasil campeao 1950». Il generale Angelo Mendes de Morais, prefetto del Distretto Federale, pronunciò questo discorso davanti alle squadre schierate al centro del campo: «Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo. Voi, giocatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti. Voi, che avete rivali in tutto l’emisfero. Voi che superate qualsiasi rivale. Siete voi che io saluto come vincitori!». Brasile e Uruguay dovevano ancora cominciare a giocare… Dirà, anni dopo, monsieur Jules Rimet, presidente della Fifa: «Tutto era stato preparato alla perfezione, tutto era previsto. Tranne la vittoria dell’Uruguay…».
Povero Barbosa Al Brasile bastava il pareggio e sarebbe stato campione. Dopo un primo tempo piuttosto noioso, i duecentomila del Maracanà si scaldarono in avvio di ripresa: rete di Friaça, 1-0 per la Seleçao. Fu allora che Obdulio Varela, capitano dell’Uruguay, prese in mano il pallone e lo portò verso il centro del campo rallentando l’azione e facendo sfogare l’allegria degli avversari. Un gesto decisivo. I compagni di Varela presero coraggio, nonostante tutto fosse contro di loro. Fu Schiaffino a timbrare l’1-1 e a undici minuti dalla fine, con i brasiliani che attaccavano, toccò a Ghiggia realizzare il 2-1. Quel gol fece precipitare nel dramma una nazione intera. Il portiere Moacir Barbosa, non impeccabile in occasione della rete di Ghiggia, venne incolpato della disfatta e per cinquant’anni (fino al 2000, quando morì) i brasiliani non vollero sentir parlare di lui. Straniero in patria.
Fuga Il risultato fu talmente imprevisto da cogliere di sorpresa perfino il presidente Rimet che si dimenticò (o fece finta di dimenticarsi) di premiare la squadra vincitrice. L’Uruguay ricevette la coppa nel sottopassaggio che porta agli spogliatoi del Maracanà: una consegna clandestina, per non infiammare ancora di più l’ambiente. E la Celeste, per festeggiare, fu costretta ad aspettare il ritorno a Montevideo: Ghiggia ci arrivò in stampelle e con un occhio nero, non gli avevano perdonato lo sgarbo. Il c.t. del Brasile Flavio Costa, per salvarsi la pelle, si rifugiò in Portogallo. E la Federcalcio brasileira, per dimenticare quella tragedia, decise addirittura di cambiare i colori della divisa: la maglietta, che in origine era bianca con colletto blu, diventò gialloverde. Ma il dolore non si cancella con un colpo di spugna, e il Maracanazo resterà per sempre una vergogna nazionale.
La Gazzetta dello Sport