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De Laurentiis: “Il calcio deve cambiare marcia”

Maneggiare con cura, però pure con illuminante decisione: perché in quella palla di fuoco c’è il calcio italiano che sta bruciando. Il Bel Paese, una volta: prima che la delinquenza sfociasse negli stadi e ammazzasse, lasciandoci senza un perché, ammesso che potesse mai esisterne uno dinnanzi a una vita spezzata; prima che si sgretolasse un Sistema, demolito nelle fondamenta, e che il Palazzo venisse sventrato da cima a fondo, concedendo macerie. Non c’è traccia del futuro, avvolto in quella nuvola vaporosa, ma esistono le energie e le risorse e una fabbrica delle idee dalle quali attingere, affinché qualcosa cambi, sin dall’11 agosto, l’appuntamento-chiave con l’Assemblea della Figc, che dovrà concedere un presidente ed anche Ct, che dovrà rappresentare lo spartiacque per quest’Italia osservata al microscopio da Napoli, da Aurelio De Laurerntiis, da chi in dieci anni, entrando dalla porta di servizio della serie C, ha preso il pallone e l’ha rivoltato dentro, riportandolo al centro d’un universo tutto da esplorare.
De Laurentiis dieci anni fa: questo calcio è vecchio. «E ricordo che dissi anche: è preistorico. Perché nessuno aveva interpretato il decreto legge del ‘96 con il quale le società di calcio si trasformavano in società per azioni con finalità lucrative; concetto quest’ultimo successivamente sostenuto anche dalla politica di Platini, che ha introdotto a conferma la regola del “fair play finanziario”. Ma potrei anche sottolineare – e non per citarmi – che in dieci anni m’è capitato altre volte di preannunciare ciò che sarebbe accaduto: penso ad esempio allo stadio-virtuale, divenuto sempre più importante. Guardandomi indietro, però, ciò che non mi ha convinto e continua a non convincermi è la mentalità superata ed improduttiva delle istituzioni del calcio».

La svolta, rileggendola, è negli uomini giovani ma con idee giovani.

«L’anagrafe non conta. Le idee sì. È imperativo rimanere giovani dentro, saper guardare al futuro. Altrimenti si è perdenti. Chi è chiamato a presiedere non può essere contaminato e condizionato culturalmente solo dal passato. Si sente spesso dire, nei momenti in cui si invocano i mutamenti: tanto poi non cambierà niente. Oggi invece, finalmente, c’è la possibilità di farlo, tenendo presente che il problema non è comunque l’età del nuovo Presidente. Purtroppo nel calcio italiano esiste una dose massiccia di provincialismo che impedisce al sistema, composto di piccoli intrighi, di lanciarsi in orizzonti lontani».

Malagò ha le fattezze della speranza?

«E pure quelle di una grande, grandissima speranza: perché non è provinciale; perché è uomo di spessore; perché – e suoni chiaramente come complimento in questo caso – è buono per tutte le stagioni; perché ha la cultura del fare e non quella del sopraffare, che invece è tipica del mondo istituzionale del calcio».

E’ un simbolo a cui aggrapparsi anche Renzi?

«Assolutamente sì. La sua giovane età gli ha permesso di uscire da schemi che lo avrebbero altrimenti imbrigliato e limitato in un gioco di ricostruzione totale del Paese, sia dal punto di vista politico che economico. Se Renzi riuscirà a resistere e a non scendere a patti con i poteri forti, interpretando in tal modo il sentimento degli italiani perbene e non perbenisti, allora avrà una vita lunga, costellata di successi di cui beneficeremo tutti noi italiani».

Esiste secondo lei una figura in grado di porsi come riferimento per il calcio?

«Intanto, bisognerebbe ridisegnare compiti e competenze di Federazione e Lega. E una volta riformulati questi princìpi, allora si potrà procedere alla scelta del personaggio più idoneo. L’errore che si rischia di commettere in questo momento è quello di considerare l’investitura al ruolo di presidente della Figc come l’effetto di una nomina politica: precipiteremmo, a quel punto, in un viaggio senza ritorno».

La voragine è nell’immobilismo del passato, ancor prima che nella decapitazione della Federcalcio…

«E se penso che la legge 91 ha ormai trentatré anni, inorridisco. È la dimostrazione che la Federazione va commissariata: tutti a casa, altrimenti è giusto che ci ridano alle spalle. Il responsabile di questo declino è chi non ha colto il mutamento epocale che ha allargato i confini del calcio, uno sport straordinario che però è diventato anche un’importantissima industria (almeno per quanto riguarda la massima serie). Ora serve immediatamente un tavolo dove si proceda alla modernizzazione: il calcio di serie A, ripeto senza stancarmi, va ritenuto un’industria alla quale va assicurato un adeguamento normativo. Gli investimenti meritano il rispetto anche della girusprudenza e non possono essere volati via decenni senza che sia mai stato registrato un intervento, uno solo, per adeguare e aggiornare ciò che è stato fatto nel secolo scorso».

L’Italia fuori dal Mondiale al primo turno fotografa – ahinoi – perfettamente le storture del Palazzo.

«Ne è la diretta emanazione. Era impossibile pensare che in presenza d’una situazione del genere, potessimo andare oltre. Né potevamo sospettare di poter inseguire chissà quali prospettive: meravigliarsi adesso non ha senso, ma la situazione era sotto gli occhi d’ognuno di noi. Il calcio in Italia non funziona e non lo sto sostenendo io, ma lo dicono i bilanci, il settanta per cento dei quali sono fallimentari. È arrivato il momento ormai inderogabile di creare le condizioni affinché i club, intesi come aziende, possano vivere e prosperare e non di incamminarsi verso il baratro. Bisogna incidere in maniera profonda, perché in serie A – talvolta anche in B ed in C – ci sono costi considerevoli; serve una politica autorevole, che sia in grado di modificare questo trend e che ribalti la situazione. Non si possono sposare strategie-tampone».

Una volta si istruivano processi puntando sul disfacimento dei settori giovanili.

«E si è sempre pensato, si continua persino a farlo, che con i vivai italiani si possano risolvere i problemi. Ma ciò in parte è vero ed in parte è falso, come dimostrano i Mondiali, come sottolinea la capacità di brillare del Belgio, che esporta i suoi talenti sì, ma che non ha limiti per l’importazione degli stranieri. Noi difendiamo il campanilismo, il Mondo chiede di aprirsi».

Scelga lei una serie di norme….

«Intanto, in Serie A, la possibilità di utilizzare i calciatori extracomunitari senza vincoli, né tetti. Ma perché la Federcalcio deve poter decidere la politica delle società? Un imprenditore deve combinare i fattori della produzione in totale libertà e senza lacci e lacciuoli posti anacronisticamente e autonomamente dalle istituzioni. Una Federazione non deve proibire, ma invitare a costruire: e come si fa, se esiste un solo Buffon, un solo Chiellini, un solo Immobile, un solo Insigne? Le 20 squadre devono restare sbilanciate tra loro? Si dovrà concedere a chiunque la possibilità di andare a comprare all’estero anche extracomunitari, come già avviene in altri paesi europei come appunto Belgio, Portogallo, ecc., per favorire la competizione anche attraverso la competenza di chi è preposto agli acquisti verificato il budget e sentite le esigenze dell’allenatore. In questo modo crescerebbe il livello del nostro calcio e con esso il livello dei giocatori italiani in squadra, e di ciò si avvantaggerebbe anche la Nazionale».

Che sino all’11 agosto non avrà neanche il Ct: non le spiace, par di capire, l’ipotesi d’un tecnico straniero, percorso da lei già battuto con il Napoli, strategia peraltro utilizzata pure da altre società in passato.

«Se volessimo restare nazionalisti, allora bisognerebbe dire no ad una eventualità del genere. Ma ci siamo affrancati con i nostri club da questa visione limitante, non capisco perché mai non potremmo farlo con la Nazionale».

Cosa la spinge a questa tendenza – diciamo così – esterofila?

«Non si tratta di essere esterofili. Il calcio è un fenomeno e un’industria mondiale. Quest’ultimo Campionato del Mondo ha fatturato in un mese circa 6 miliardi di dollari; Io indico un percorso, dò un suggerimento, non ho la pretesa di essere seguito. Però dovendo scegliere un allenatore al quale affidare una Nazionale da rilanciare, vanno fatte alcune valutazioni storiche: la prima riguarda ciò che il mercato italiano offre in questo momento, la disponibilità dei tecnici, la loro qualità. Poi c’è il problema dei compensi, eventualmente: e siamo dinnanzi alla seconda riflessione».

Il campionato a sedici squadre è il format ideale della Serie A di De Laurentiis….

«E l’amico Claudio Lotito invece si accontenta di vincere le partite a metà, limitandosi eventualmente a ridurre a diciotto club il torneo del futuro. Ma io non invito a rivoluzionare l’attuale sistema per limitare la presenza di altre società: era già così nel 1986 e se vogliamo essere più competitivi in Italia e quindi anche in Europa, non possiamo stressare con questa quantità impressionante di partite né le società, né i calciatori. Se vogliamo allenare la Nazionale, dobbiamo trovare degli spazi che in questo momento non ci sono. E invece siamo tutti così egoisticamente compressi ognuno a difesa dei propri orticelli per una manciata di voti in più sia in Lega che in Federazione».

Dal Brasile sono arrivate una serie di suggerimenti.

«Lo spray è da importare immediatamente: perché non soltanto è piaciuto, ma è servito per snellire la pratica delle punizioni. La tecnologia del “gol-non gol” molto utile. E devo dire che in assoluto gli arbitri sono stati bravi – a parte qualche episodio che ha toccato anche la nostra Nazionale – nel velocizzare il gioco estraendo cartellini e distribuendo ammonizioni molto raramente. Ciò ha creato anche più rispetto fra calciatori rivali».

E persino Blatter è divenuto “moderno”.

«Come un cardinale Richelieu, s’è ripreso il potere universale ed ha recuperato punti puntando sulla moviola. È stato un gesto da opportunista, se vogliamo, ma se la sua svolta è utile per il miglior funzionamento del calcio, ben venga questo insospettabile Blatter».

Ha chiesto a professori dell’Università di Salerno di studiare il modo attraverso il quale riformare l’istituto della responsabilità oggettiva.

«Vero. E credo che sia un atto dovuto ed improrogabile attraverso il quale tutelare i tifosi, ancor prima che le società. La giustizia sportiva va adeguata ai tempi, altrimenti di che parliamo?».

Sono stati giorni difficili: la morte di Ciro Esposito è una ferita che resta.

«Un dramma collettivo d’una città straordinaria. E’ stata esemplare la famiglia di Ciro ma adesso bisogna intervenire e seriamente e rapidamente, fronteggiando il pericolo della violenza in maniera semplice ma decisa. Va riavvicinato al calcio chi ama il calcio. Serve una volontà generale e l’introduzione di leggi da applicare, come accaduto in Inghilterra: prima hanno svuotato gli stadi dagli hooligans, poi li hanno riempiti».

Dieci anni dopo, rileggendosi dentro, avverte la fatica o il peso di uno sforzo non solo economico?

«Ho dovuto costruire da zero un nuovo club e l’ho dovuto fare in condizioni particolari, con la tensione che trasmetteva la priorità di conquistare in fretta la serie A mentre invece ancora affrontavamo le difficoltà e le complessità della C e della B. E quando poi siamo tornati tra le grandi, le nuove richieste: competere ai massimi livelli prima in Italia e poi in Europa. Però ce l’abbiamo fatta come Napoli e sento la soddisfazione di aver provveduto ad imprimere, nel nostro piccolo, una svolta: il fair play finanziario non è stata l’unica mossa per mostrare che esistono strade alternative da percorrere…».

Ripartendo dal basso: è anche lì che bisogna incidere.

«E ci mancherebbe. Perché le fondamenta danno stabilità al sistema, lo sostengono attraverso l’integrazione. La serie C ma anche la serie B devono rappresentare il serbatoio del calcio italiano, ma questa è vicenda ormai decrepita e si continua a procedere attraverso l’improvvisazione: è lì che i giovani devono essere testati, verificati, e sarebbe in quei campionati che andrebbero introdotte nuove forme di regolamentazione, l’obbligo a schierare solo italiani under 25 ed infine di vietare, in questo caso sì, il tesseramento di calciatori stranieri».

Ciclicamente ci ritroviamo a dover affrontare una serie di scandali, ricorrenti negli ultimi anni sono stati quelli sull’universo delle scommesse.

«Che distruggono il calcio mondiale. C’è un’indagine condotta dall’ex pm Cantone che tutti dovrebbero leggere e che dimostra come avvengano questi crimini. È urgentissimo attivare una task-force, magari proprio con a capo un personaggio autorevole come Cantone, per proteggere il calcio internazionale da tali infiltrazioni».

 

Corriere dello Sport

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